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di Stefano Ceccanti

 

Era praticamente impossibile, frequentando la Facoltà di Scienze Politiche di Pisa ad inizio anni’80, dove insegnavano tra gli altri Giuseppe Are, Giuliano Marini e Domenico Settembrini, non imbattersi in un articolo di Mondoperaio tra quelli suggeriti come letture.

 

Laicità sul dibattito istituzionale

Il primo asse tematico era quello sulle istituzioni. Qui l’importanza era duplice: sui fondamenti e sulle conseguenze.

Sui fondamenti era decisivo Norberto Bobbio perché, al di là della demolizione più generale del gramscismo e dello svelamento dell’inesistenza di una teoria marxiana normativa dello Stato e delle sue istituzioni politiche, centrava la riflessione sull’importanza delle regole e delle procedure, ridimensionando le visioni sostanzialiste delle culture di matrice comunista e cattolica. Per inciso, però, anche nell’ambito delle sinistre cattoliche e democristiane la tradizione morotea e ancor più quella della sinistra di Base, pur con percorsi diversi, condividevano nella sostanza quell’impostazione culturale di fondo. Non irrilevante era anche la spinta di Dario Antiseri nella riscoperta di Popper e della sua, per quanto incompleta, teoria della democrazia come competizione per sostituire pacificamente chi governa.

 

Oltre l’intangibilità del governo parlamentare

Sulle conseguenze i testi di Amato e Coen laicizzavano la discussione sulla forma di governo perché da sinistra mettevano in discussione l’intangibilità della forma di governo parlamentare a declinazione assembleare, giungendo a sdoganare gli assetti gollisti della V Repubblica francese, da tempo comunque fatti propri anche dalla sinistra francese.

In questo caso le conseguenze erano invece diverse rispetto alle sinistre cattoliche e democristiane che mettevano in discussione il proporzionalismo puro. Sul momento i due revisionismi, istituzionale ed elettorale, si presentavano come opposti, anche per le diverse esigenze tattiche che li rendevano contraddittori: il Psi beneficiava del potere di coalizione post-elettorale assicurato da quella proporzionale, mentre la Dc come federazione di correnti era contraria alla presidenzializzazione. Tuttavia, a ben vedere, si trattava di due verità parziali e complementari: lo si vide con le riforme riuscite nel decennio successivo, dai comuni alle regioni, che hanno poi modificato sia la formula elettorale sia la forma di governo. Senza quel revisionismo culturale, con tutta probabilità, non si sarebbero accumulate le risorse culturali per il movimento referendario che a inizi anni ’90 avviò la spinta delle riforme, anche se finì in modo imprevisto per scontrarsi con le esigenze tattiche della leadership di Craxi al momento del referendum sulla preferenza unica nel 1991.

 

Il dissenso all’Est

Queste riflessioni sulla centralità di regole e procedure non erano però sganciate dai ragionamenti sulla base materiale del sistema, sulle possibili evoluzioni del sistema dei partiti senza le quali si sarebbe trattato non di una sana assunzione di un pezzo di cultura liberale, ma di mere astrazioni.

Mondoperaio, anche attraverso la riflessione sul dissenso democratico all’Est (molto simile a quella che conduceva Esprit in Francia), su cui Il Pci era ancora timido per l’impostazione che sarebbe sopravvissuta fino al 1989 sulla riformabilità interna di quei regimi, rompeva una narrazione, quella di un’anomalia positiva, ancora viva in larghi strati della nostra intellettualità, secondo cui l’Italia sarebbe stato un Paese fortunato ad avere un Pci che non era un normale partito socialista o socialdemocratico e una Dc con una chiara posizione alternativa alla sinistra. Le due anomalie speculari, con la prima che determinava la seconda, che impedivano l’alternanza. Per inciso: al di là degli articoli di Mondoperaio mi capitò nello stesso periodo di essere inviato dalla Fuci in Francia per un incontro in occasione delle Presidenziali del 1981 e in quel contesto, mi sembrò decisamente più dinamico un sistema che consentiva di praticare un’alternanza e così era vissuto dai miei coetanei, al netto dello scetticismo sulla piattaforma un po’ rétro del candidato Mitterrand.

Mi capitò poi con Federico Coen di scrivere a quattro mani per la rivista “I Democratici” nel 1996 uno dei primi progetti per l’adozione della riforma semi-presidenziale e del doppio turno di collegio, a testimonianza di come le due verità fossero appunto complementari, ma in quel caso non avemmo fortuna nello stabilizzare la transizione a livello nazionale.

 

Le politiche pro-Labour

Il secondo asse tematico era quello del superamento in chiave pro-labour dell’alta inflazione, puntando alla difesa del salario reale e non di quello nominale, nell’incrocio con l’elaborazione della Cisl di Carniti, con cui in quel periodo c’era una certa simbiosi per il transito lavorativo di ex fucini nella Confederazione e in alternativa alle scelte Thatcher-Reagan. E qui ricorrevano i nomi di Tarantelli, Giugni, Treu e di vari altri. La cosa paradossale in quella battaglia culturale fu che una scelta concertativa, di neocorporativismo democratico (come si diceva allora, forse in modo lessicalmente infelice) che era alternativa alle destre venisse invece attaccata da sinistra in nome di un primato assoluto del partito, senza il consenso del quale una scelta di policy non sarebbe stata per principio definibile come pro-labour.

Tutto ciò che Carniti ci ha svelato integralmente qualche anno dopo a proposito dei suoi colloqui con Berlinguer. Del resto è la stessa cosa che ricordo, nel mio piccolo, col prearato funzionario del Pci, Francesco Demitry, che interloquiva con le associazioni cattoliche. Sia nel caso del referendum sul costo del lavoro nel 1985 che in quello della limitazione del voto segreto nel 1988 alle spiegazioni di merito sulla validità di quelle scelte politiche, l’obiezione aveva un carattere solo partigiano – …ma quella cosa oggi favorisce il Psi – ed era dunque priva di ogni possibile prospettiva di lungo periodo.

Difficilmente il governo dell’Ulivo sarebbe riuscito nel suo compito storico di portarci nell’euro senza quell’esperienza paradigmatica di valorizzazione del pluralismo sociale e senza la limitazione del voto segreto, ben difese da Mondoperaio.

Non tutto, quindi, venne realizzarlo subito e non mancarono limiti tattici, ma quello che spettava a una rivista di cultura politica, seminare germi di novità, fu comunque estremamente fecondo. Anche per molti che allora non si collocavano nelle medesime famiglie politiche.

 

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