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Che cosa vuol dire per i cattolici fare politica oggi?

Giovanni Cominelli lunedì 27 Settembre 2021
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di Giovanni Cominelli

Pare, dunque, che mentre papa Francesco stava sotto i ferri, in una sala operatoria del Policlinico Gemelli, alcuni prelati si siano riuniti – previdenti, preoccupati o speranzosi? – per preparare il prossimo imminente Conclave. Questa è la rivelazione che lo stesso Papa ha fatto allegramente davanti ad una riunione di Gesuiti slovacchi, più divertiti che scandalizzati. Quali che siano i miasmi fetidi che salgono dai corridoi millenari della Curia romana – ma è mai esistita una Curia senza miasmi? – essi sono soltanto l’epifenomeno della crisi profonda che la Chiesa cattolica sta attraversando nella sua concitata transizione, iniziata con il Concilio Vaticano II, da Chiesa radicata in Europa, e missionaria nel resto del mondo, a Chiesa globale, missionaria dappertutto. La figura di Papa Francesco incarna drammaticamente questo tormentato passaggio. Il processo di “de-ellenizzazione” del Cristianesimo, già denunciato da papa Benedetto XVI a Regensburg, è già visibilmente incominciato.

Questa transizione è in corso anche in Italia, più lentamente che nel Nord-Europa, ma altrettanto irreversibile. Le preoccupazioni al riguardo sono di vario segno. I credenti sono divisi, almeno quanto le gerarchie, tra un’ala apocalittico-conservatrice, che confonde la fine di un mondo con la fine del mondo, imputandone la responsabilità al Concilio Vaticano II e ai Papi che lo hanno assecondato (Paolo VI e Francesco) – un’ala mistico-quietistica – il futuro della Chiesa non dipende da noi, ma da chi l’ha fondata – e un’ala minoranza/creativa – il futuro dipende anche da noi.

I non credenti si dividono, a loro volta, sull’uso civile e politico della crisi della Chiesa. Alcuni sono preoccupati, perché temono il potenziale venir meno di un’agenzia etica e civile, che mantenga e alimenti i legami indispensabili per l’esistenza di una società civile. Consapevoli del deserto etico di una società a modernizzazione selvaggia e corporativa, si sono proclamati “atei devoti”. Si tratta dei “cristiani culturali”, che non hanno la fede, ma spesso neppure l’etica cristiana elementare, ma che hanno preso atto dell’importanza del Decalogo ai fini della costituzione della tavola dei valori laico-liberali. Ed è qui – sulla piattaforma delle libertà – che possono credere di ritrovarsi i credenti e i liberali miscredenti. Il Cristianesimo, in questa prospettiva, diviene una specie di “liberalismo per il popolo”.

L’uso politico dell’ala apocalittico-conservatrice dei credenti è stato spinto all’estremo dal leghismo di Bossi prima – chi non ricorda una compunta Irene Pivetti, già capolista della Lista studentesca martiniana e anticiellina “Dialogo” in Università cattolica, assistere poi devotamente vandeana alla messa in Latino? – e dal leghismo-sovranismo di Salvini poi. Presepi, corone del rosario, crocifissi sono stati agitati nei comizi quali segnali neo-costantiniani di una strenua difesa dell’identità cristiana, quale che ne sia il contenuto, che in ogni caso sfugge all’agnostico Salvini. La posta in gioco sono i valori per i credenti, i voti per Salvini.

Ciò che appare evidente è un uso reciproco: la destra usa i cattolici per i voti, i cattolici usano la destra per difendere con la politica e, possibilmente, con le leggi dello Stato la propria identità.

Ora, che la politica di destra o di sinistra “faccia uso” della fede religiosa non dovrebbe comunque né stupire né scandalizzare i credenti, perché le fedi religiose hanno plasmato da sempre le società umane, hanno consolidato i legami sociali e fornito il senso della vita, che è il motore fondamentale delle società umane. A loro volta hanno “usato” la politica e lo Stato, anzi hanno costruito gli Stati.

Del resto, delle tre tendenze religiose fondamentali a livello globale – lo spiritualismo, il carismatismo, il fondamentalismo –, che attraversano, secondo gli studiosi, le grandi religioni monoteistiche, le ultime due sono quasi automaticamente coinvolte nella politica attiva.

Se i cattolici italiani o, per essere più precisi, i loro intellettuali si interrogano angosciosamente sul proprio ruolo, sulla propria assenza e sul proprio silenzio in politica, la ragione di fondo è che i cattolici, il clero, le gerarchie sono diventati “spiritualisti”.  Il ripudio dell’uso della politica a fini religiosi ha finito per tradursi in abbandono del campo politico. “Spiritualismo”, infatti, significa ridurre la fede religiosa a fatto intimo, privato, a benessere interiore, a partecipazione consolatoria ai riti. Fuori dal proprio santuario interiore, la fede non ha più nulla da dire, in relazione alla vita sociale e politica. La fede non diviene misura di tutte le cose. La religione diviene una via alla salvezza individuale, una delle tante vie prevista della New Age. Quando un credente entra in chiesa, si lascia alle spalle il mondo reale per entrare nella dimensione irreale/surreale, cui lo invitano a entrare le letture totalmente disincarnate del Vangelo e i sermoni devozionistici e insulsi di molti celebranti. I riti sono divenuti una via di fuga rispetto alle proprie responsabilità nel mondo.

Che cosa vuol dire per i cattolici fare politica oggi?

Qui tocchiamo, infine, il punto decisivo: a cosa serve una Chiesa cattolica oggi nella storia del mondo? La Chiesa costantiniana, le cui tracce profonde in quella italiana sono ancora visibili, è passata dalla pretesa, assai spesso realizzata, di forgiare il mondo, di essere all’avanguardia del  suo sviluppo civile, politico, filosofico, scientifico  – alla storia della Chiesa appartiene anche un Papa, Giovanni XXI, morto vittima di un esperimento scientifico che stava conducendo! – alla contrapposizione crescente ad un mondo sempre più renitente. Il Concilio di Trento, svoltosi nel pieno intreccio dei poteri ecclesiastici e secolari, ha finito per porre il mondo e la Chiesa su due strade progressivamente divergenti. Il Concilio Vaticano II ha tentato una sutura, ma troppo tardi. Ora, la Chiesa si trova a rincorrere affannosamente un mondo che segue strade proprie, che si sta inoltrando per strade rischiose e sconosciute.
Quale missione resta alla Chiesa cattolica? Non la difesa dei propri apparati. Non la difesa della propria storia, con i suoi lampi folgoranti e le sue dense ombre. Non la promozione diretta o indiretta di partiti politici. Non l’alleanza con i poteri di questo mondo.

Ad essa spetta, in primo luogo, la coltivazione della coscienza della finitudine, del limite, dell’altro, dell’interdipendenza, nell’orizzonte della globalizzazione. La tentazione dell’onnipotenza umana si sta sviluppando insieme all’evoluzione del sapere scientifico e tecnologico. E’ la tentazione irrealistica dell’Homo Deus. Coltivare il senso del limite significa l’accompagnamento vigile e critico di ogni avventura e esperienza umana, che lo sviluppo tecnico-scientifico tende a generare, oltre i confini dell’umano finora sperimentato. L’altro terreno è quello della funzione di coscienza critica della globalizzazione. L’alternativa pace/guerra continua, infatti, a rimanere come prospettiva realistica della storia umana.
Torma qui la Chiesa come “maestra di umanità” nella splendida definizione di Paolo VI.

Resta da chiedersi se i cristiani, i loro presbiteri, le loro parrocchie, i loro vescovi siano consapevoli di questa missione.

 

(Editoriale da santalessandro.org, 25 settembre 2021)

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