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Giovani, immigrati, cittadinanza: una sfida per la democrazia

Paolo Segatti venerdì 26 Marzo 2021
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di Paolo Segatti

La decisione di Enrico Letta di promuovere tra gli iscritti un dibattito su due temi, come lo ius culturae e il voto ai sedicenni, è un segnale importante. Entrambi i temi riguardano il futuro di questo paese e la visione che ne ha o dovrebbe avere un partito come il Pd. È evidente il loro contenuto simbolico. Sarebbe però sbagliato se se ne parlasse solo per marcare la distanza identitaria con gli altri partiti che sostengono il governo Draghi, senza cioè discuterne nel merito.

Sulla questione dell’integrazione civica degli immigrati l’opinione pubblica italiana, e anche quella che guarda al Pd, è in clamoroso ritardo. Per le ragioni demografiche che sappiamo l’Italia sta diventando un paese plurale in una misura sconosciuta rispetto al suo passato. La motivazione principale di chi è a favore dello jus culturae è che molti degli immigrati regolari sono già nei fatti italiani. Hanno studiato qui, ne parlano la lingua. Quelli che lavorano pagano le tasse. È un buon argomento che tuttavia non tiene conto che prima o poi bisognerà pure fare i conti con la interpretazione che i nuovi italiani daranno di cosa significa per loro essere italiani. A meno di aspettarsi come cosa ovvia una loro passiva assimilazione a tutti i contenuti culturali che fanno oggi di un italiano un italiano. Una aspettativa questa condivisa da molti italiani. Ma non è una aspettativa innocente.

Spinge molti di noi, anche di coloro che votano il Pd, a considerare gli immigrati un problema perché si teme che dare loro la cittadinanza implichi ritrovarsi stranieri a casa propria. Sia i modelli assimilazionisti che quelli multi-culturalisti non sono riusciti a dare una risposta efficace a queste paure. Forse varrebbe chiedersi quale sarà il punto di incontro sul terreno culturale tra vecchi e nuovi italiani? Rispetto a che cosa diventeremo simili noi e loro? E in che cosa diversi? Come reagiremmo se alcune comunità di immigrati, concentrati territorialmente, chiedessero di insegnare nelle scuole la loro lingua, come accade per le minoranze nazionali? Sono bene che esiste una differenza normativa tra chi è parte di una minoranza nazionale e gli immigrati. Ma questa differenza non è scritta nella roccia.

Insomma l’opinione pubblica non è preparata alla sfida di cosa significhi in concreto integrazione civica in una società culturalmente plurale. Sospetto che non lo sia nemmeno la classe dirigente di questo paese. Altrimenti come spiegare il “prestito” di una senatrice di nazionalità slovena eletta nelle liste del Pd al gruppo dei “responsabili” per salvare il Conte bis. Molti cittadini italiani di nazionalità sloveni potrebbe pensare con buone ragioni che il voto al Pd ha un valore in qualche modo diverso di quello di un altro cittadino italiano se chi ne esercita la funzione di rappresentanza è ritenuto dal gruppo dirigente del Pd così fungibile.

La proposta del voto ai sedicenni affronta un problema reale. In un paese di vecchi, ai giovani si presta poca o nessuna attenzione. Prendiamo per esempio il problema del debito pubblico. L’opposizione a politiche incisive di riduzione è certamente maggiore tra gli elettori di destra, in Italia. Ma conta anche l’età. Gli anziani sono decisamente meno sensibili al problema dell’alto debito pubblico, per ovvie ragioni. Non ne pagano loro le conseguenze. Abbassare il diritto di voto a sedici anni è una decisione che potrebbe aiutare i giovani a farsi ascoltare di più, a tener conto anche del futuro del paese? Ovviamente sì, se andassero a votare. Il punto cruciale è proprio questo, il peso politico dei giovani dipende dalla possibilità che si consolidi fra di loro una propensione positiva alla partecipazione politica. Cosa ne sappiamo al riguardo dopo decenni di studi sui fattori che promuovono la partecipazione politica?

Tre cose, soprattutto.

La prima è che la relazione tra propensione alla partecipazione e l’età è curvilinea. Molto bassa tra i giovani. Raggiunge il suo massimo nelle classi d’età centrali e poi declina nuovamente.

La seconda è che la buona abitudine a considerare il voto come un dovere civico è il risultato di un apprendimento che viene dalla cultura familiare di origine, ma anche dall’intensità politica che hanno avuto le prime elezioni in cui si è votato. Sono questi fattori che hanno un impatto di lungo periodo sul livello aggregato di affluenza alle urne, oltre ovviamente l’esistenza o meno del voto obbligatorio. Quanto accaduto nei primi anni settanta lo dimostra. Allora in molti paesi, tra cui il nostro, venne abbassato il voto a 18 anni. In molti paesi i diciottenni di allora non riuscirono ad acquisire una abitudine al voto. Ciò ha prodotto un declino del livello complessivo di partecipazione, mano a mano che le nuove coorti entravano nel corpo elettorale e le vecchie che avevano sviluppato l’abitudine al voto ne uscivano. Questa dinamica però non si manifestò in Italia perché la prima elezione politica alla quale i diciottenni di allora votarono è stata quella memorabile del 1976, quella del quasi sorpasso.

La terza cosa riguarda i pochissimi studi sull’impatto dell’abbassamento a sedici anni. Questi mostrano che abbassare l’età di voto a sedici anni potrebbe non avere le conseguenze che ebbe abbassarlo a 18 anni nei primi anni settanta. Uno studio recentissimo di M. Franklin, già professore all’Istituto Universitario Europeo, mostra che nei paesi in cui si è abbassato l’età di voto la partecipazione al voto di questa coorte di età si è mantenuta elevata per un periodo non breve. Il problema è che sono veramente molto pochi i paesi che hanno abbassato l’età di voto per essere certi che la tendenza sia effettivamente generalizzabile. Per di più la ragione per la quale l’abbassamento dell’età di voto a sedici potrebbe non avere un impatto negativo sul livello complessivo di partecipazione è che a sedici anni si sta per lo più a casa, ancora sotto l’influenza della cultura civica della famiglia di origine.

Ma se la propensione al voto dipende dalla cultura civica della famiglia di origine c’è da aspettarsi che i giovani privi di questa risorsa familiare tendano ad andare a votare meno. Lo studio di Franklin mostra anche che nei paesi in cui si è abbassata l’età di voto è aumentata anche la propensione a cambiare voto ad ogni elezione. Insomma abbassare l’età di voto a sedici anni è una decisione che potrebbe non avere effetti solo positivi o comunque anche effetti diversi da quelli attesi. Potrebbe aumentare la diseguaglianza politica o una volatilità maggiore di quella che abbiamo conosciuto in questi anni. Se il bilancio è questo, vien da chiedersi se non ci siano altre strade per fare in modo che gli Italiani prestino più attenzione al futuro del paese e quindi ai giovani.

In ogni caso discutere su questi temi nel merito fa bene alla nostra democrazia, perché dovrebbe essere evidente che sollevare problemi complicati con l’unico fine di rinforzare le proprie identità politiche non fa crescere la consapevolezza degli italiani delle sfide che hanno di fronte e non aiuta a risolvere i problemi. Anche questo modo di fare politica ci ha portato al punto in cui ci troviamo.

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