LibertàEguale

Digita parola chiave

Il “nuovo Pd”: sfide e contraddizioni secondo Ceccanti

Redazione mercoledì 24 Marzo 2021
Condividi

di Umberto De Giovannangeli 

Il Riformista ne ha discusso con Stefano Ceccanti, costituzionalista, parlamentare dem, vicepresidente vicario dell’associazione di cultura politica “Libertà Eguale”.

In una intervista a questo giornale, Angelo Panebianco ha sostenuto che puntando decisamente sull’identità del “nuovo Pd”, Enrico Letta abbia messo in conto di non avere la possibilità in questa fase di vincere le elezioni, e dunque il problema è avere la premiership dell’opposizione sui 5Stelle. E’ una lettura forzata?

Mi consenta anzitutto di fare una battuta. Panebianco dice che il Pd di Letta rilancia la sua vocazione maggioritaria, ma che lo farebbe puntando sull’idea di guidare gli sconfitti nel 2023. In termini di scienza politica, il terreno su cui Panebianco ci è maestro, aspirare a guidare l’opposizione non è però definibile come una vocazione maggioritaria, ma, caso mai, come una buona vocazione minoritaria. Andando oltre la battuta, davvero possiamo pensare che l’elettorato sia sostanzialmente fermo, che la competizione sia solo dentro le due diverse aree politiche che dominano la scena, cioè tra Lega e Fdi a destra e tra Pd e M5S a sinistra? Mi sembra che l’elettorato sia molto più mobile, che non ci siano rendite per nessuno e che, in particolare, il successo del Governo, di cui ci sono tutte le potenzialità anche se non bacchette magiche immediate, può essere una variabile significativa. Di conseguenza, ferma restando la differenza tra ruolo e funzioni di un Governo e dei partiti, il Pd di Letta è il partito meglio posizionato per ricavarne dividendi elettorali. Il Pd non è solo in rapporto di competizione-collaborazione col M5s, peraltro in modo capovolto rispetto a prima (per Bettini, in sostanza, il Pd era la sinistra che affidava la conquista dell’elettorato centrale al M5s rinnovato con Conte) perché partito riformista centrale nel sistema politico e in grado di guardare all’elettorato nel suo insieme, competitivo dunque anche rispetto al centrodestra grazie alla cultura politica moderna della componente tecnica del Governo, del tutto simile a quella del primo Ulivo di Andreatta-Prodi.

Sempre nell’intervista, Panebianco rimarca che la nascita stessa del Partito democratico è legata alla stagione del maggioritario. Se è così, allora una domanda s’impone: se si archivia quella stagione, non si “archivia” anche il Pd?

Per rispondere dobbiamo chiarirci su cosa intendiamo per ‘stagione del maggioritario’. Provo a proporre una definizione: si ha stagione del maggioritario se le forze politiche sono in grado di raggrupparsi in due poli dominanti, ognuno dei quali può vincere da solo le elezioni, anche grazie a sistemi elettorali selettivi. Questi ultimi sono approvabili, o mantenibili, se i poli si legittimano reciprocamente e non hanno timore che la vittoria dell’altro possa causare conseguenze irreversibili negative. Se il senso è questo, noi siamo in una stagione del maggioritario a partire dalla nascita del Governo Draghi. Ne fanno parte forze che in prospettiva sono alternative, ma che per consentirne la nascita hanno dovuto convenire sul carattere strutturale del rapporto tra Italia e Ue, pilastro del sistema, come aveva sottolineato il Presidente Mattarella quando aveva rifiutato nel Conte 1 la nomina di Savona, autore di un piano per l’uscita surrettizia dall’euro. Non a caso dopo la nascita del Governo e già prima dell’ascesa di Letta, che poi lo ha formalizzato, stavano cadendo quelle ipotesi di sistemi a base proporzionale che escludevano coalizioni pre-elettorali, figlie della fase precedente quando quel pilastro era contestato, quando c’era disomogeneità su di esso. Pur non potendo dare nulla per definitivamente acquisito e al contrario dovendo continuare a sorvegliare attentamente le compatibilità costituzionali. Quindi siamo in una nuova stagione maggioritaria e per questo c’è spazio per il Pd.

Negli ultimi 15 anni il centrosinistra, e in esso il Pd, ha vinto una sola volta le legislative, eppure è stato per 11 anni, e continua stare, al Governo. Non è che il Pd sia affetto da “poltronismo” e che abbia il terrore di passare, per dirla con Paolo Mieli, ad una lunga, salutare fase di opposizione?

Partiamo dai dati e facciamo qualche precisazione. La prima è che quindici anni significa partire dal 2006, quando il Pd non c’era, c’era l’Unione, una coalizione ‘contro’, non è assimilabile all’Ulivo. Credo che dobbiamo stare attenti ad appiattire le esperienze sulla base di un atteggiamento generico pro-coalizioni. L’Ulivo del 1996 era una coalizione omogenea, tant’è che le forze che vi diedero vita riuscirono poi undici anni dopo, in ritardo sui tempi, per inerzie delle classi dirigenti, anche a dar vita ad un partito, l’Unione era un’alleanza contro. Riscoprire le coalizioni va benissimo se ci si riferisce all’Ulivo del 1996, non all’Unione del 2006. Seconda precisazione: l’Unione non aveva davvero vinto le elezioni perché al Senato la maggioranza non c’era e di quella legislatura, avendo insistito a voler governare da soli, pur in quelle condizioni si ricorda un solo titolo di merito, pur grande: aver eletto al Quirinale Giorgio Napolitano. Dal fallimento dell’Unione nasce il Pd a vocazione maggioritaria, tale non perché rifiutava le coalizioni in sé ma perché le concepiva intorno a un partito-guida in cui la leadership interna doveva coincide con quella che propone al Paese, secondo la fisiologia delle grandi democrazie parlamentari ed evitando il dualismo del 1996 tra il candidato-premier e il segretario del primo partito, che era in sé portatrice di divisioni, non per la rigidità personale dell’una o dell’altra persona, Prodi o D’Alema. Le grandi democrazie parlamentari praticano l’unione personale dei due ruoli perché altrimenti si ingenera un dualismo necessariamente conflittuale.

Chi guida il Governo vive il partito come un impaccio e chi guida il partito tende a dire che ben altro farebbe il partito rispetto a quello che fa il Governo cattivo, pur guidato da un proprio esponente. Peraltro già nella cosiddetta Prima Repubblica Nino Andreatta sosteneva che il rendimento delle formule di centrosinistra e di solidarietà nazionale sarebbe stato di qualità diversa se colui che le aveva volute, Aldo Moro, avesse ricoperto entrambe i ruoli, cosa che la natura di federazione di correnti della Dc precludeva. Credo e spero che con Letta si faccia sintesi tra l’autentica impostazione delle coalizioni (l’Ulivo del 1996) e la vocazione maggioritaria del 2007 (il Pd come guida del centrosinistra il cui segretario sia anche il candidato premier. Terza precisazione: è vero che il Pd è andato al Governo non solo quando ha quasi vinto ed era comunque inaggirabile (2013), ma anche quando ha perso (nel 2011 con Monti e in questa legislatura con Conte e Draghi) e che questo non è fisiologicamente sano, ma ciò non è dovuto a una vocazione ‘poltronista’. Nel 2011 era legato all’incapacità della segreteria Bersani di elaborare una proposta effettiva di Governo alternativa a Berlusconi: quando cadde il centrodestra si sarebbe potuto votare se quella alternativa fosse stata pronta, ma la cosiddetta ‘foto di Vasto’ con Di Pietro e Vendola era come l’Unione e sarebbe durata anche di meno. Invece in questa legislatura c’era una vera emergenza: andare al voto in occasione di una delle due crisi di Governo avrebbe potuto significare un Parlamento con maggioranza di forze contrarie all’Unione europea. Uno scenario drammatico che sconsigliava di anticipare elezioni, da svolgere invece o a scadenza ordinaria o, se anticipate, solo se in sicurezza sui pilastri della Costituzione. Ora ci sono le condizioni, grazie al Governo Draghi, per evitare scenari analoghi nel 2023, comunque vada.

Nel gruppo dirigente dem c’è chi ha visto la nascita del governo Draghi come una sorta di colpo di stato parlamentare. Insomma, più che una opportunità anche per avviare una fase di ri-costruzione del sistema politico, tesi sostenuta da Mario Tronti, l’operazione-Draghi è qualcosa che è stato imposto dai “salotti buoni” della borghesia…

Io penso che ci sia un conservatorismo mentale che non aiuta a capire i processi. Il passaggio dal Conte 1 al Conte 2 è stato un punto di svolta fondamentale nella legislatura dopo che il Movimento 5 Stelle aveva votato a favore della Presidente della Commissione europea, iniziando un percorso significativo di evoluzione, sia sull’asse apertura europea-chiusura nazionalista sia su quello destra-sinistra. Anche in Parlamento l’esperienza nel lavoro quotidiano col Movimento 5 Stelle è stata largamente positiva, ma il punto era se ci si dovesse fermare lì, se qualsiasi evoluzione dovesse essere vista come negativa, se le obiettive difficoltà del Conte 2 dovessero escludere la positività di un passaggio ulteriore. Tra l’altro, proprio nell’esperienza quotidiana, specie dopo il passaggio parlamentare sulla questione di fiducia al Senato, con una sola maggioranza relativa, neanche tra i gruppi del M5s, che pur vedevano e vedono bene l’operato di Giuseppe Conte, c’era davvero una condivisione sullo schema “o Conte o morte” che alcuni dei nostri dirigenti sostenevano, curvando male la linea ufficiale del Pd. Insomma, l’età dell’oro non era alle nostre spalle. L’ascesa di Letta ratifica questo giudizio.

Letta punta a due capigruppo “rosa” per Camera e Senato, invocando una “rivoluzione culturale”. Lei come la vede?

Gruppi parlamentari e partito hanno ruoli distinti, ma sono uniti in un medesimo progetto. Ne deriva che il segretario ha il diritto di dare indirizzi e di segnalare l’opportunità di scelte che ne conseguono e che i gruppi, poi, decidano democraticamente come attuarle. E’ l’equilibrio positivo che si sta realizzando.

Intervista pubblicata su Il Riformista il 24/03/2021

Tags:

Lascia un commento

L'indirizzo mail non verrà reso pubblico. I campi richiesti sono segnati con *