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di Stefano Ceccanti

 

Il Codice di Camaldoli non voleva essere un vero e proprio codice, ma un ben più pregevole insieme di riflessioni e proposte. Esso si presta a un bilancio senz’altro positivo, anche se non è un blocco, se ne devono cogliere anche i limiti.

Va apprezzato per il contributo dato ai principali articoli della successiva Costituzione economica codificando diritti e doveri di un moderno Stato sociale, interpretando alcune aperture significative del pontificato di Pio XII. Da segnalare peraltro che, nella ricostruzione di Taviani, lo Stato interventista non era statalista perché si collegava alle economie e alle società aperte dell’area occidentale, era coerente con l’impegno per l’unità europea e con la comune appartenenza alla Nato. In questo senso gli Autori non erano affatto distanti dalla sensibilità sturziana sui rischi di degenerazioni statalistiche. Taviani non le nega, ma ne individua la causa nella mancanza di alternanza che ha finito con l’appiattire i partiti di Governo sulla gestione statale e che ha spinto i partiti di opposizione per un verso a consociare e per altro a scadere nella demagogia.

Non possono però essere taciuti un’omissione e un ritardo culturale.

L’omissione consiste nella totale mancanza di riferimenti ai partiti. Ovviamente essa non era affatto casuale. C’era ancora, come sappiamo bene dalle puntuali ricostruzioni di Scoppola, un dilemma tra la posizione sostenuta dagli ambienti più conservatori a partire dal cardinale Tardini, che intendevano favorire un pluralismo politico dei cattolici, convinti che questo avrebbe pesato a favore di un equilibrio più marcatamente conservatore, anche a costo di dividere in modo netto il Paese, e i sostenitori di un’unità politica al centro necessitata dal probabile scontro internazionale Usa-Urss. Per de Gasperi e Montini, nella necessaria unità politica, l’elemento dell’iniziativa autonoma dei laici aveva una preminenza sul mandato gerarchico; una lettura diversa rispetto a quella del mondo romano-curiale.

Il ritardo culturale consisteva nell’uso tradizionalistico del diritto naturale, nella visione della Chiesa cattolica come ‘societas perfecta’ da cui conseguivano il carattere gerarchico del rapporto marito-moglie nel matrimonio, la distinzione tra figli legittimi e illegittimi col rifiuto di equipararne i diritti, le scuole riservate alle sole donne per la loro funzione familiare, il rifiuto di una piena libertà religiosa e l’accettazione solo di una limitata tolleranza. Non si può obiettivamente dire che queste posizioni fossero inevitabili: esse erano rifiutate ad esempio nei coevi scritti di Maritain e Mounier.

L’opera decisiva di de Gasperi, capace di valorizzare le parti positive e di neutralizzare quelle negative, ha prodotto sul lungo periodo, con la caduta del Muro di Berlino, un contesto diverso. Con essa è venuta meno la necessitata unità politica, come Taviani aveva già profetizzato fin dal 1963. A far comprendere l’eterogeneità delle forze che si erano coagulate nella Dc italiana a differenza degli altri partiti oggi aderenti al Ppe, chiaramente collocati dal centro alla destra dei rispettivi sistemi politici, sta l’ultima intervista rilasciata dallo stesso Taviani a La Stampa in cui invitava i popolari italiani ad aderire sul piano europeo ai socialisti, raggiungendo così la componente cattolico democratica che da Delors in Francia, a Pintasilgo in Portogallo, a Peces-Barba in Spagna aveva fatto quella scelta dentro sistemi bipolari con possibilità di alternanza.

Quando ci richiamiamo al contributo dei cattolici dal Codice alla Carta ci imbattiamo quindi in un percorso che davvero, come scritto nella presentazione del Codice, non può essere inteso come un programma nostalgico minoritario per autoghettizzazioni dei cattolici o per uno schiacciamento verso il conservatorismo, ma in quello che è stato davvero, pur con alcuni limiti, un contributo di “grandi linee per la ricostruzione di un mondo più umano e più giusto”.

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