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Legge elettorale, il premio di maggioranza è la scelta giusta. Ecco perché

Dario Parrini venerdì 4 Giugno 2021
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di Dario Parrini

 

Destano perplessità gli argomenti con cui Gianfranco Pasquino (il Fatto Quotidiano, 29 maggio) boccia l’idea di una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione.

La critica che trattasi di un modello che non esiste in altri Paesi europei ha il fiato corto. Anche le leggi con cui si vota in Francia e Germania sono un unicum a livello continentale. Nessuno, tuttavia, le censura per questo.

Fuorviante è l’accostamento alle malfamate leggi Acerbo e Scelba.

La prima concedeva alla lista più votata, se conseguiva almeno il 25% dei voti, 356 seggi su 535 (il 66,5%).

La seconda, valida solo per la Camera, accordava alla coalizione più votata, se raggiungeva almeno la metà più uno dei voti, 380 seggi su 590 (il 64,4%).

La proposta odierna di proporzionale con premio è tutt’altra cosa: darebbe alla coalizione più votata, se consegue almeno il 40-45% dei voti (quale sia esattamente la soglia più opportuna è questione aperta), il 55% dei seggi alla Camera (220 su 400) e al Senato (110 su 200).

Caratteristiche che la rendono imparagonabile alle norme del 1923 e del 1953: la soglia di premio (40/45%) non è troppo bassa; l’entità massima del premio (non più di 10-15 punti percentuali) è moderata e rispetta la sentenza 35/2017 della Consulta; il numero di seggi assegnati alla coalizione vincitrice è prudentemente lontano dai più cruciali quorum costituzionali di garanzia.

Le leggi Acerbo e Scelba, sebbene diversissime per soglia di premio e entità massima dello stesso (41,5 punti in un caso; 14,4 punti nell’altro), avevano invece in comune il grave difetto di attribuire troppi seggi, e perciò uno strapotere parlamentare, alla lista o alla coalizione aggiudicataria del bonus.

La proporzionale con premio attualmente in discussione (che, notare bene, premia non una lista ma una coalizione di liste, un altro pianeta rispetto all’Italicum) ha anche il pregio che gli elettori, già al primo turno, oppure nell’assai improbabile ballottaggio a due (che la coalizione vincitrice resti sotto il 40% è ipotesi estremamente remota), tornerebbero a poter scegliere la maggioranza di governo (ad essere cioè realmente “arbitri”, nel senso che a tale termine dava Roberto Ruffilli).

Inoltre, grazie alla base proporzionale di lista, ogni partito alimenterebbe il risultato della propria coalizione mantenendo in pari tempo un grado elevato di autonomia.

Con questo sistema l’alleanza che vince le elezioni ha la certezza di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi, ma non può stravincere. Le minoranze non possono essere schiacciate. La tutela del pluralismo e degli equilibri costituzionali è piena.

Non convince nemmeno l’appunto che la disproporzionalità complessiva originata da un sistema elettorale è inaccettabile se viene da un premio di maggioranza esplicito, mentre è accettabile se deriva dal premio implicito connesso ai collegi uninominali maggioritari a un turno (Regno Unito) o a due turni (Francia). 

Per ben quattro volte, nella Quinta Repubblica, il sistema francese ha sovrarappresentato di più di 25 punti la coalizione vincitrice (il centrodestra a trazione gollista nel 1958, 1968 e 2002; nel 2017 il cartello di centro Lrem-MoDem, che ha ottenuto il 60% dei seggi partendo dal 32% dei voti). In un’occasione, nel 1993, la disproporzionalità fu di 40 punti: il centrodestra di Chirac conquistò l’84% dei seggi muovendo dal 43% dei voti. In Gran Bretagna, nelle tre elezioni vinte tra il 1997 e il 2005, il Labour conseguì una quota di seggi di circa 20 punti superiore alla sua quota di voti.

È lampante che i collegi uninominali maggioritari possono produrre sbilanciamenti di rappresentanza molto più pesanti di quelli scaturenti da sistemi fondati su di un ragionevole premio. In confronto, questi ultimi comportano rischi distorsivi sensibilmente più ridotti e realizzano un più equo compromesso tra governabilità e rappresentatività.

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