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Meloni e FdI, caso di scuola della vocazione maggioritaria. Lezioni per il Pd

Enrico Morando mercoledì 23 Agosto 2023
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di Enrico Morando

 

La critica di Pasquale Pasquino – che ringrazio per gli apprezzamenti che esprime nei miei confronti – mi fa capire che non sono stato chiaro su di un punto essenziale: anch’io non penso che la maggioranza degli elettori di Meloni l’abbia votata condividendo le posizioni assunte dalla stessa nei lunghi anni di opposizione.

Sostengo semplicemente che Meloni – anche quando ha condotto al successo la sua scalata alla leadership del centro-destra – quelle posizioni non le ha cambiate attraverso un esplicito chiarimento politico. Nel migliore dei casi, le ha messe sullo sfondo. Ciò le ha consentito “di fare la somma”: gli elettori identitari più gli elettori delusi dai due precedenti leader del centrodestra. Naturalmente, è stata molto aiutata dalla disastrosa condotta del PD: non essendo in grado di presentare agli elettori né una visione sul futuro dell’Italia, né un programma, né una leadership credibile, ha consentito a Meloni di giustapporre tradizionali posizioni nazionalpopuliste e senso di responsabilità nazionale ( “è più in continuità con Draghi lei, che lo ha avversato, del PD che lo ha sostenuto fino all’ultimo”). Senza pagare dazio elettorale né sul primo fronte, né sul secondo.

Ora, è certamente vero che delle contraddizioni dei leader politici gli italiani non si occupano (anche perché nessuno degli attori le fa loro notare). Ma l’azione di governo è una cosa diversa dalla campagna elettorale.

La mia opinione è che le vecchie posizioni di Meloni spieghino le impasse del suo Governo – dalla incredibile condotta sulla ratifica del MES alla totale assenza di iniziativa sulla definizione del nuovo Patto di stabilità, dal pasticcio dei “ sovraprofitti” degli istituti di credito (che forse diventerà un credito di imposta: un esito da avanspettacolo), alla confusa condotta in materia di riforma fiscale, dal panpenalismo che reclama aggravio delle pene al garantismo della separazione delle carriere – assai più e meglio della esigenza di tenere conto delle posizioni dei due alleati, cui il mio intervistatore faceva riferimento nella sua domanda.

Meloni e FdI sono un caso di scuola di ciò che significa partito (con relativo leader) a vocazione maggioritaria: Salvini e Tajani sono iunior partner ridotti alla subalternità più totale, proprio perché avevano conquistato la leadership dello schieramento, ma hanno giocato malamente le loro carte. Le insidie per la vocazione maggioritaria di Meloni non vengono dagli alleati, ma dall’idea che Meloni ha di se stessa e della funzione del partito FdI. Ciò che costringe Meloni a rimandare disperatamente il voto sul MES, a non dire che la proposta della Commissione sul nuovo Patto è quanto di buono l’Italia potesse sognare dalla riforma delle regole della politica di Bilancio…, è l’esigenza di mantenere “la somma” di cui sopra. Sbaglia? Certo, ma quelle che a noi paiono (e per il Paese sono) catene da cui liberarsi al più presto, a lei sembrano legami che forniscono una solida base identitaria al suo consenso. In una parola, pensa di poter “eternizzare” il gioco che le è riuscito così bene in campagna elettorale.

Un’ultima osservazione: queste considerazioni sulla natura (e sui punti di debolezza) del progetto di Meloni non è inservibile analisi politologica: al contrario, dovrebbe spingere a concentrare l’iniziativa sui più seri problemi del Paese, compresi quelli sui quali Meloni “non può “ fare ciò che serve al Paese stesso per costruirsi un futuro migliore. Ma qui si pongono i problemi che – per il PD – nascono dal privilegio riconosciuto ai temi dell’identità (ottimo fondamento del minoritarismo). 

 

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