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Pd, no alla restaurazione, sì alle riforme

Vittorio Ferla domenica 3 Marzo 2019
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di Vittorio Ferla

 

Finalmente è arrivato il momento delle primarie. Serve una bussola (prima di tutto personale) che possa essere utile per gli ultimi indecisi. I temi di rilievo per orientarsi in questa scelta sono molti. Ma ho deciso di selezionarne tre (nei quali, mi pare, ricadano in qualche modo tutti gli altri che non si possono citare per motivi di spazio).

 

Il rischio della rimozione

In primo luogo, la valutazione sulla stagione dei governi guidati dal Partito Democratico.

La vulgata imperante sui media, nell’accademia e nella sinistra storica è quella colpevolista. Il Pd dovrebbe chiedere scusa, fare abiura delle politiche riformiste attuate da Renzi e Gentiloni, rimuovere e cancellare definitivamente la leadership che quelle riforme ha promosso. Il tema della campagna elettorale era sostanzialmente questo, almeno fino a quando uno dei tre candidati non ha scelto di impegnarsi direttamente per scongiurare questa rimozione.

La verità è tutt’altra. I governi del Pd degli ultimi anni sono stati quelli che meglio hanno incarnato e favorito la modernizzazione dell’Italia. Abbiamo vissuto una stagione delle riforme mai vista nel nostro paese. Il crollo è stato violento, ma è dovuto a molteplici fattori (alcuni dei quali analizzati diffusamente nelle Tesi di Libertà Eguale, alle quali in parte rimando): non ultimo, tra questi, la schizofrenia di un Partito Democratico che, da una parte, faceva le riforme e, dall’altra parte, le contestava.

Orbene, oggi occorre non soltanto respingere con fermezza la rimozione di questa stagione riformista, ma piuttosto promuoverne la ripresa. Di fronte alle politiche del governo bipopulista che condanna l’Italia alla recessione economica, civile, sociale e democratica, serve viceversa riprendere il cammino delle riforme, del progresso e dello sviuppo.

 

Il rischio della restaurazione

In secondo luogo, bisogna interrogarsi sulla vocazione del Partito Democratico e sui rischi della restaurazione. Ancora una volta, la vulgata imperante sui media, nell’accademia e nella sinistra storica è che si debba fare piazza pulita del Lingotto.

Il Pd dovrebbe rinunciare alla vocazione maggioritaria. In altre parole, dovrebbe rinunciare a rappresentare le diverse famiglie e posizioni della sinistra, rinchiudersi nel fortino della tradizione socialdemocratica (e movimentista), puntare alla unità delle sinistre associando anche il populismo di sinistra del M5s, farsi portavoce di una realtà magari minoritaria, ma omogenea dal punto di vista ideologico. Insomma, una ‘sinistra che torna a fare la sinistra’, ispirandosi al radicalismo dei Sanders, dei Corbyn, dei Mélenchon.

In pratica, bisognerebbe rifare i Ds (Democratici di Sinistra) e ritornare alla logica dei cartelli elettorali contro la Destra sul modello della vecchia Unione. Insomma, un Ulivo che non ce l’ha fatta, si potrebbe dire. Almeno l’Ulivo aveva il vento in poppa del cambiamento e, alla fine, ha condotto all’invenzione del Partito Democratico. Con questo processo a ritroso, viceversa, si ritornerebbe al piccolo mondo antico della sinistra velleitaria e minoritaria.

Il corollario di questa impostazione è il proporzionalismo della Prima Repubblica. Ovvero un sistema politico-istituzionale fatto di partiti minoritari e ideologici (liberati da leader troppo invadenti e guidati da oligarchie di funzionari) che si uniscono di volta in volta in cartelli elettorali per realizzare politiche della dissipazione basate sulla consociazione spartitoria.

 

L’abbraccio mortale con il populismo

In terzo luogo, emerge il tema del rapporto con il populismo. Chi si muove nel filone della rimozione (delle riforme) e della restaurazione (della sinistra classica) sostiene che il vero nemico sia la destra leghista. E che il M5s rappresenti una sinistra “dal sen fuggita”. Con i pentastellati – intesi sia come ‘popolo’ sia come ceto politico – bisognerebbe pertanto dialogare nel nome dei comuni valori (e di una comune vuota retorica): la lotta alla povertà e alle diseguaglianze.

Purtroppo, in questa posizione, appare in tutta evidenza la subalternità politica e psicologica al populismo. In buona sostanza, la sinistra tradizionale vive un sentimento di invidia politica. Si rode e si contorce per il successo dei grillini. Lo invidia. Si consuma per la gelosia. Pensa – anche se non può dirlo – che le politiche assistenziali e stataliste dei Cinquestelle, basate sulla spesa pubblica scriteriata e improduttiva, avrebbe dovuto farle essa stessa.

Qui sta il vero – e più intricato – nodo che va sciolto. E che può essere risolto soltanto con una impostazione coerentemente riformista, liberaldemocratica e progressista (radicalmente alternativa a tutto il populismo, a quello di destra come a quello di sinistra). Da un lato, dunque, opponendosi alle politiche autolesioniste dei populisti ‘gialli’ che rappresentano oggi una minaccia letale per le speranze di sviluppo dell’Italia. Dall’altro, proseguendo le politiche di modernizzazione del paese avviate dai governi Renzi e Gentiloni.

 

Ho cercato di capire in questi mesi – sulla base dei programmi e delle dichiarazioni – quale dei tre candidati – tutti assolutamente degni di stima e di rispetto – fosse più vicino a queste preoccupazioni.

Ho escluso certamente Zingaretti, perché mi pare troppo vincolato dal desiderio di restaurazione. Ho sinceramente apprezzato molti aspetti del programma riformista di Martina. Ma alla fine ho scelto di sostenere la mozione Giachetti-Ascani perché è quella che rispecchia meglio la prospettiva riformista che mi pare oggi necessaria.

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