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di Fabrizio Macrì

 

Gli ultimi dati Istat certificano un tasso di crescita negativo del PIL italiano nell’ultimo trimestre 2018 (-0,2%) e le ultime previsioni dell’UPB e del centro studi di Confindustria sul tasso di crescita del 2019 non vanno oltre il +0,5% su base annua: l’Italia è entrata ufficialmente in recessione.

Di certo il rallentamento dell’economia europea ed in particolare della produzione industriale tedesca ha avuto un effetto recessivo sulla nostra economia nazionale, così fortemente orientata all’export, ma in realtà il trend del PIL delle maggiori economie dell’UE continua ad essere al rialzo.

Non sembra neanche ci fosse un eccessivo ottimismo nelle previsioni dei precedenti esecutivi, visto che le ultime previsioni partorite da Gentiloni erano mediamente al di sotto dell’effettivo tasso di crescita del PIL nel 2017 e ad inizio 2018.

Secondo il Centro Studi di Confindustria ad incidere quindi sull’attuale decrescita del PIL sembrano essere prevalentemente fattori interni, determinati da scelte con effetto recessivo.

 

La brusca frenata degli investimenti privati

In primis si registra una frenata brusca degli investimenti privati (dal +5,2% nel 2018 al -0,3% nel 2019) che Confindustria attribuisce ai seguenti fattori:

– il calo del tasso di fiducia delle aziende dovuto al clima di generale incertezza sui conti pubblici: aumento dello spread, aumento della pressione fiscale complessiva, incombere delle clausole di salvaguardia sull’IVA (previste nel 2019 a quota 23 miliardi di Euro);

– il taglio degli incentivi fiscali contenuti in Industria 4.0 (pacchetto di misure fiscali di stimolo all’industria introdotte dall’ex Ministro Calenda) all’acquisto di beni strumentali e tecnologici per le imprese più grandi;

– in terzo luogo latitano gli investimenti pubblici: latitanza di cui l’Italia soffre da molti anni e sui quali ci si aspettava un’accelerazione da parte di questo Governo. Invece gli investimenti sono stati sacrificati nella trattativa con la Commissione europea, a favore degli stanziamenti per pensioni e reddito di cittadinanza;

– infine si prevede un impatto espansivo molto ridotto sui consumi (+0,3%) per effetto dei pre-pensionamenti introdotti da quota 100 e dall’iniezione di liquidità per i redditi più bassi introdotta dal reddito di cittadinanza.

La scelta quindi di aumentare la spesa pubblica corrente a svantaggio degli investimenti pubblici e degli incentivi fiscali agli investimenti privati è la causa del rallentamento.

 

Gli effetti del protezionismo sull’export

Le esportazioni per fortuna continuano a crescere, ma rallentano vistosamente risentendo del protezionismo che arriva da alcuni dei maggiori mercati di destinazione del Made in Italy, in primis gli USA. Non è un caso che i mercati di destinazione più in crescita nel 2018 siano Svizzera, India e Paesi Bassi.

Fino ai primi mesi del 2018 la crescita italiana era stata trainata da incentivi fiscali agli investimenti privati e politica commerciale molto orientata all’export.

Le esportazioni italiane nel 2018 hanno sfiorato i 500 miliardi di Euro quasi raddoppiando di valore rispetto all’entrata dell’Italia nell’Euro. La crescita dell’export nel 2017 è stata del 7,4% e del 3,1% nei primi 9 mesi del 2018.

 

La questione degli investimenti

Un’altra chiave era stata la flessibilità introdotta sul mercato del lavoro che avevano contribuito ad attrarre investimenti esteri: l’Italia è tornata ad essere nel 2017 uno dei dieci Paesi più attrattivi al Mondo per gli investimenti diretti esteri: questi sono aumentati sia nella loro componente green-field ma anche in quella generata da operazioni di M&A, ovvero operazioni di fusione e acquisizione con soggetti esteri.

A fronte del taglio degli incentivi di Industria 4.0 e di una politica commerciale meno favorevole al libero scambio, ci si aspettava una importante accelerazione sul fronte degli investimenti pubblici. Così non è per ora ed una certa incertezza avvolge in particolare gli investimenti infrastrutturali.

Il dibattito più noto al riguardo, concerne la TAV: è possibile che un’analisi costi benefici finanziari nel breve sconsigli la realizzazione dell’opera. Tuttavia nella situazione appena descritta in cui anche l’ultimo volano di crescita (gli investimenti pubblici) latitano, realizzarla avrebbe senz’altro un impatto positivo sul giro di affari delle imprese coinvolte. La seconda e forse più importante ragione a favore della realizzazione della TAV è il suo ruolo nel quadro dei collegamenti che contribuiscono ai flussi di merci tra il Porto di Genova ed il centro Europa.

Interesse strategico dell’Italia è infatti che sempre maggiori volumi di merci provenienti o diretti in Asia attraverso il canale di Suez non passino dallo stretto di Gibilterra per poi percorrere l’Atlantico e raggiungere i porti del Nord Europa (Anversa, Rotterdam ed Amburgo) ma che utilizzino le infrastrutture del più importante scalo portuale merci d’Italia (Genova) e passino attraverso le Alpi per andare a servire le economie di Francia, Svizzera e Germania meridionale dove si concentra la gran parte della manifattura europea.

Affinché Genova sia competitiva occorrono trasporti ferroviari veloci ed efficienti dalle banchine del porto agli snodi logistici del Centro-Europa a partire da Basilea.

 

Aumentare la spesa corrente non può bastare

Insomma se deprimiamo gli investimenti privati attraverso la riduzione della leva fiscale a favore di chi compra tecnologia, se poniamo un freno all’export, attraverso la messa in discussione dei trattati di libero scambio e irrigidiamo il mercato del lavoro tornando a scoraggiare gli investimenti esteri, poniamo un freno ai 3 stimoli alla crescita frutto del processo di integrazione dell’Italia nell’economia globale.

Se latitano anche gli investimenti pubblici, le nostre speranze di crescita rimangono appese al risveglio dei consumi generato dagli aumenti di spesa corrente che hanno partorito reddito di cittadinanza e quota 100.

Sembra veramente troppo poco soprattutto se si considera che la minore crescita e quindi il minore gettito fiscale previsti per il 2019, potrebbero far scattare le clausole di salvaguardia IVA. Queste a loro volta avrebbero un effetto depressivo anche sull’unica voce cui sono appese le nostre speranze: i consumi.

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