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Reddito di cittadinanza: più spesa, niente crescita

Natale Forlani venerdì 18 Gennaio 2019
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di Natale Forlani

 

Alcuni amici, pur apprezzando le mie analisi, mi contestano di trascurare l’importanza di avere una politica rivolta a contrastare la Povertà.

La cosa un po’ mi “ruga”, come si suol dire, dato che mi sono occupato professionalmente per lunghi anni, e con vari ruoli, sui temi del lavoro e delle politiche sociali

Mi consentirete, cari amici, di essere un po’ paranoico, nel sostenere che quelle che si stanno approntando non sono politiche di contrasto alla povertà, ma semplicemente la riproposizione caricaturale degli errori fatti nel passato su questo terreno.

 

Il contrasto alla povertà in Europa

Se prendiamo, ad esempio, gli altri paesi europei che si sono dotati da tempo di una politica di contrasto della povertà osserviamo che:

– questa politica viene adottata solo come strumento terminale di altre politiche: fiscali, per le famiglie, per le politiche passive e attive del lavoro e di sicurezza sociale, che hanno anche il compito di prevenire i rischi di impoverimento delle persone e dei nuclei familiari;

– che le politiche pubbliche primarie di contribuzione e redistribuzione del reddito rimangono imperniate sulla leva fiscale.

Pertanto gli strumenti previsti nelle politiche rivolte a contrastare la povertà sono esplicitamente finalizzati ad affrontare e rimuovere i molteplici aspetti del disagio sociale (di origine psicofisica, ambientale, sanitaria, educativa e culturale) che impediscono alle persone di accedere alle opportunità di lavoro e di benessere. Un ruolo di veicolazione sociale , non di supplenza delle altre politiche.

Niente a che fare con redditi di cittadinanza (mai titolo fu più infelice), che inglobano al loro interno le politiche del lavoro, di sostegno alle famiglie e della non autosufficienza, di pensioni di vario genere, per non parlare della convinzione bislacca che attribuisce a queste politiche, e nel caso recente anche a quelle di prepensionamento, il compito di rilanciare la crescita economica.

 

Il caso italiano

Ma per comprendere meglio il caso italiano, mettiamo in fila un po’ di numeri.

In Italia, I dati più recenti stimano la spesa pubblica per assistenza annuale in circa 140 mld ( 115 mld a carico dello stato per integrazioni alle pensioni di vario tipo, invalidità, non autosufficienza, assegni familiari, disoccupazione, maternità.. il resto a carico degli enti locali). Una cifra notevolissima, e abbondantemente al di sopra delle medie europee. Ma persino sottovalutata, se pensiamo che una miriade di interventi rivolti a diminuire il concorso degli utenti ai costi dei servizi (tickets sanitari, abbonamenti bus, rette scolastiche dalle scuole materne alle università, canoni di favore per le locazioni…) non sono stimati in queste somme.

In poche parole, in Italia le aliquote fiscali progressive sono solo una parte del meccanismo redistributivo, ma si ritiene che per ogni prestazione, e per ogni ente di erogazione, si debbano riproporre con criteri disomogenei una serie di misure solidaristiche per far fronte ai problemi delle persone e delle famiglie meno abbienti.

 

Povertà assoluta in aumento

Il risultato è che, nonostante la notevole mole di risorse investite, la povertà assoluta in Italia è aumentata, si sono favoriti i comportamenti opportunistici per accedere alle prestazioni, e, non di rado, chi paga regolarmente le tasse, soprattutto i lavoratori dipendenti, si deve ripagare l’accesso ai servizi pubblici.

Negli ultimi anni, con l’adozione dell’indicatore Isee, utilizzato anche per il Reddito di inclusione, si è cercato di mettere un po’ di ordine sulla materia, se non altro per omogeneizzare l’utilizzo degli indicatori per stimare la povertà e l’accesso alle prestazioni.

Ma manca ancora una anagrafe nazionale sull’accesso alle prestazioni assistenziali (che da sola avrebbe consentito con la sola razionalizzazione delle risorse il finanziamento del provvedimento) e siamo ben lontani dall’avere una capacità delle amministrazioni di prevenire gli abusi.

In questa situazione che si fa? Si assume, sulla carta, l’indicatore Isee per selezionare l’accesso al reddito di cittadinanza, e poi si riparte da capo:

– con la fantomatica pensione di cittadinanza, che non è un aumento delle pensioni minime, ma però consente di avere delle integrazioni superiori agli altri nuclei familiari;

– con le indennità di disoccupazione, che così vengono definite per la politica attiva e per gli incentivi, ma che non sono tali perché nella realtà sono cifre personalizzate di integrazione al reddito familiare;

– con la pretesa di fronteggiare la povertà dei nuclei familiari numerosi, penalizzando nel calcolo per la stima delle prestazioni i nuclei numerosi;

– prevedendo risorse aggiuntive per gli invalidi, dopo averle tolte ai non autosufficienti.

Il tutto con la pretesa ridicola di dirottare tutti gli investimenti per le politiche attive del lavoro verso il reddito di cittadinanza, per il solo fine di giustificare moralmente il varo di un intervento che ripropone le peggiori pratiche del passato (lavori socialmente utili compresi).

Il risultato finale non sarà quello di diminuire la povertà assoluta, che varierà in relazione all’andamento dell’economia e della occupazione e non per questi provvedimenti, ma di aver spinto una ulteriore crescita della spesa assistenziale.

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