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Riduzione parlamentari, una riforma che non riforma

Salvatore Bonfiglio martedì 9 Aprile 2019
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di Salvatore Bonfiglio

 

In questi giorni la I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati sta esaminando, in sede referente, una proposta di legge* che riduce il numero dei parlamentari del 36,5%, sia alla Camera che al Senato. Si tratta di una drastica riduzione, per cui è opportuno chiedersi se non vi sia il rischio di compromettere sia l’efficienza che la “rappresentatività” delle istituzioni rappresentative.

La comparazione diacronica e sincronica ci permette di cogliere alcuni elementi di “distonia istituzionale” caratterizzanti la proposta di legge.

 

Un ulteriore calo della rappresentatività

Consideriamo le elezioni in Italia del 1948 per la Camera dei deputati: gli elettori erano allora circa 29 milioni, oggi per la stessa Camera sono oltre i 50 milioni se si considerano anche i 4 milioni di elettori nella Circoscrizione Estero. Gli elettori per il Senato erano 22 milioni, meno della metà dei quasi 47 milioni di oggi.

Questo dato numerico evidenzia la minore rappresentatività oggi del Parlamento rispetto al 1948: allora per la Camera il rapporto era di circa 50.000 elettori per eletto.

Inoltre, con la drastica riduzione che si propone, rispetto ad altri Stati membri dell’Unione Europea con popolazioni di analoghe dimensioni, l’Italia diverrebbe quello con il rapporto maggiore tra numero di elettori e parlamentari (150.000 per la Camera e 300.000 per il Senato).

Se si ipotizzasse un Senato federale (o una Camera delle Regioni) non ci sarebbe niente di strano nel proporre una riduzione anche drastica del numero dei suoi componenti. Basti pensare al Senato statunitense, composto da 100 rappresentanti. O al Bundesrat tedesco, i cui membri sono soltanto 69. Viceversa, in uno Stato unitario parzialmente decentralizzato, come nel caso francese, la seconda Camera, che rappresenta le collettività territoriali (metropolitane e d’Oltremare) e i rappresentanti dei francesi all’estero, è composta da 348 senatori eletti a suffragio indiretto.

Ora, visto che il nostro Senato non è una Camera federale e non è eletto a suffragio indiretto, non si capisce in base a quale logica di sistema dovrebbe essere composto da 200 anziché da 315 senatori.

 

Una riforma che non elimina le anomalie…

La rideterminazione del numero dei parlamentari di per sé non ha nulla a che vedere con la riforma del Parlamento.

Se l’obiettivo politico che tanto viene enfatizzato è quello di produrre maggiori risparmi, perché non proporre allora l’abolizione della seconda Camera? Perché riproporre un bicameralismo indifferenziato, che è un’eccezione – o forse sarebbe meglio dire un’anomalia – in un sistema parlamentare come il nostro? Il Senato in Italia non soltanto non rappresenta le Regioni, ma non rappresenta neanche i cittadini sotto i 25 anni che non concorrono alla sua elezione.

Se invece gli obiettivi principali sono l’efficienza e la rappresentatività del Parlamento, allora occorre dire che entrambe dipendono dalla composizione e dalle competenze delle Camere, nonché dai regolamenti parlamentari, dalle buone pratiche, dai soggetti politicamente e costituzionalmente rilevanti, ecc.

Rispetto alla riduzione del numero dei parlamentari, una maggiore efficienza può essere generata soprattutto dall’adozione di un bicameralismo differenziato.

 

… ma rischia di compromettere i lavori parlamentari

Viceversa, la riduzione drastica del numero dei parlamentari rischia perfino di compromettere il funzionamento dei lavori parlamentari che si svolgono prevalentemente nelle Commissioni permanenti. In questa prospettiva, a mio avviso non auspicabile, occorrerebbe adeguare i regolamenti parlamentari, ridurre il numero attuale delle Commissioni, garantire il diritto di partecipazione delle minoranze, rivedere le regole sulla formazione dei Gruppi parlamentari, ecc.

Altra questione molto dibattuta è se la riduzione del numero dei parlamentari possa favorire una maggiore stabilità governativa. Certo, tale riduzione molto probabilmente avrebbe come conseguenza una riduzione del numero dei partiti politici, ma non è detto che porterebbe alla formazione di maggioranze pre-elettorali omogenee, coese e stabili, perché l’aggregazione di tali maggioranze dipende soprattutto dalla legislazione elettorale.

Del resto, rimanendo diverso l’elettorato attivo e passivo per l’elezione dei membri nei due rami del Parlamento è possibile, come l’esperienza costituzionale ci conferma, che vi possano essere due diverse maggioranze parlamentari.

E ciò in un sistema di bicameralismo indifferenziato come il nostro, in cui entrambe le Camere devono votare la fiducia al Governo, costituisce un ulteriore problema per la stabilità del governo.

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(*) proposta di legge C. 1585, approvata dal Senato, recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”

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