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di Marco Campione

 

Tra le tante cose importanti raccontate da Francesco Costa nella sua inchiesta in podcast su Milano ce n’è una a mio avviso più importante di altre. Cosa caratterizza Milano ed è alla base del suo buongoverno (con amministrazioni di qualsiasi colore)? L’esigenza dei milanesi.

E non intende la necessità, ma l’essere esigenti. 

I milanesi sono esigenti e alzano progressivamente l’asticella delle proprie richieste a chi amministra la città. E di conseguenza chi l’amministra si adegua o va a casa. Credo sia questa la vera differenza, dal punto di vista amministrativo, tra Roma e Milano.

 

Un esempio: il nuovo Stadio San Siro

Da settimane la discussione sul nuovo stadio di Milano si è fatta pubblica. Le squadre hanno detto la loro, il Politecnico ha detto la sua, la sovrintendenza si è pronunciata, i cittadini si sono mobilitati… e il Consiglio Comunale si è espresso mettendo i paletti dell’interesse pubblico e delle esigenze (in tutti i sensi) della città. Perché a mobilitarsi, a esigere appunto, è stata tutta la città e non solo i comitati di quartiere più o meno rappresentativi o i portatori di interesse.

La Giunta Sala nelle prossime settimane dovrà pronunciarsi. E avendo ascoltato le esigenze di una città esigente non potrà che decidere al meglio. Con la ragionevole certezza che se per un impazzimento generale dovesse decidere in modo ideologico e sconnesso da quelle esigenze sarà punita dagli elettori.

 

Una città esigente è una garanzia per tutti

Ed è qui l’aspetto più significativo di tutta la faccenda.

Questa consapevolezza degli amministratori milanesi è una garanzia per chi condivide e per chi non condivide le scelte che di volta in volta vengono fatte. Perché il cittadino sa che in ultima istanza interverrà il cittadino elettore a sanzionare comportamenti non all’altezza della città.

Non solo lo sa, ma lo ha interiorizzato a tal punto che si comporta di conseguenza: sapere di essere ascoltati (anche quando non si viene accontentati) determina un rapporto più armonico con chi ti amministra, con la città, con i cittadini, adeguando anche i comportamenti individuali a questa armonia.

 

Invece per lo Stadio della Roma…

Niente di tutto questo è successo per lo Stadio della Roma.

E il risultato (se lo si può chiamare così) è sotto gli occhi di tutti: un progetto (quello della giunta Marino) molto equilibrato e nell’interesse di tutti prima bloccato, poi stravolto rendendolo molto meno utile alla città e infine impantanato comunque; tutto questo solo per la miopia di una classe dirigente, non solo politica, incapace di assumersi le proprie responsabilità.

Ma anche (ed è questo aspetto che qui mi interessa toccare) poco sollecitata dalla popolazione. Lo stesso progetto della Giunta Marino non era figlio di una richiesta esigente, ma “solo” di amministratori attenti al bene comune. Non è poco, ovviamente, ma questa storia ci conferma che è condizione necessaria ma non sufficiente per cambiare in meglio le cose.

A renderla sufficiente è il consenso. Non inteso come voti, ma come condivisione.

Con il consenso, con la condivisione, in definitiva con un popolo, il progetto (ma anche Marino e la sua giunta, a ben vedere) non avrebbero fatto la fine che hanno fatto… 

 

Adesso è il turno dell’Aeroporto di Roma

Un altro esempio ci viene dalla cronaca di questi giorni. Il governo ha bocciato l’ampliamento dell’Aeroporto di Roma. Non dico nulla nel merito perché sono ignorante. Ma ai fini di questo contributo ciò che rileva è che niente di quella discussione è arrivato alla città. Tagliata fuori.

Eppure la logistica e le infrastrutture sono elementi fondamentali per lo sviluppo di una metropoli. A Milano questo silenzio, questo disinteresse, sarebbero stati inconcepibili. Per non parlare di Monaco, Parigi, Barcellona…

Se Roma (e qui parlo dei romani, delle sue comunità, della sua classe dirigente non solo politica) non riscopre l’orgoglio di essere Capitale, sarà dura che possa risollevarsi.

 

Basta pigrizie e formule astratte 

E mi piacerebbe una classe politica all’altezza della posta in palio smettesse di discutere di formule, di politicismi astratti; mi piacerebbe si confrontasse su questo. Che è -per inciso- anche il fallimento più profondo della attuale amministrazione, visto che è su questo risveglio che aveva puntato per essere eletta. 

Invece si continua a ripetere il pigro slogan dell’unità fine a se stessa.

Martedì scorso è stato il turno di Smeriglio, colui che viene considerato (assieme a Bettini) il consigliere più ascoltato da Zingaretti. Parlando del percorso che porterà alle amministrative a Roma ha dichiarato a Repubblica: «dobbiamo evitare di passare dalla padella della gestione Raggi alla brace di un sindaco razzista e sovranista». Lo fa peraltro dopo aver detto che si deve ragionare di un candidato comune nelle suppletive di Roma per sostituire Gentiloni e che «bisogna mettere i 5S nelle condizioni di partecipare alle Primarie».

Io penso che su queste basi non si costruirà mai nulla di interessante per portare al Campidoglio un sindaco che non sia né incapace, né sovranista.

 

Tra un incapace e un “sovranista” capace…

E per quel che conta, in caso di ballottaggio per il Sindaco, tra un incapace e un “sovranista” capace probabilmente me ne starei a casa o -costretto a scegliere- voterei per il secondo.

Ma al di là delle scelte personali, è del tutto evidente che quel mantra ripetuto pigramente non ha alcun fondamento logico, prima che politico. O perché non serve (Gentiloni fu eletto con il 40% abbondante, i 5S -ed era il 2018, l’anno del loro primato- presero metà dei voti del centrodestra) o perché non funziona.

Bene ha fatto Luciano Nobili a rispondergli per le rime: «quando annacqui te stesso in alleanze improbabili pensando così di sciogliere i nodi politici poi vai a sbattere».

Ce lo conferma l’Umbria. Gli (ormai ex) elettori umbri dei Cinquestelle non erano affatto di sinistra: venivano dall’astensione e se lasciano i 5S piuttosto che votare centrosinistra restano a casa o (in misura minore se il raffronto è con le europee) votano direttamente per il centrodestra.

 

Alzare l’asticella

Pensare di vincere a Roma con l’argomento che c’è il pericolo sovranista alle porte è (uso un eufemismo) illusorio.

Serve un popolo che alzi l’asticella. Ma prima serve una politica che alzi l’asticella: una politica esigente che non consideri l’unica scelta possibile quella tra la padella e la brace. 

Basterà l’anno e mezzo che ci separa dalle amministrative? Non penso. Ma un Sindaco capace di rappresentare una ripartenza vera (a Milano quel Sindaco fu Albertini) è fondamentale.

 

Un precedente che viene da lontano

Consapevole delle differenze (un’altra epoca, dimensioni incommensurabili) voglio ricordare che in un momento caratterizzato -come questo- da scomposizione e ricomposizione del quadro politico (il passaggio dalla cosiddetta Prima Repubblica alla Seconda) una città che attraversava una crisi anch’essa epocale, Torino, si giocò la carta del Prof. Castellani.

A chi dovrà decidere le strategie per Roma suggerisco di ispirarsi a quella operazione, figlia di un sapiente mix tra senso politico e senso civico, il cui regista fu un giovane dirigente ex comunista che farà strada, ma soprattutto farà il bene di Torino e del Piemonte, Sergio Chiamparino.

La candidatura Castellani nacque dal coinvolgimento delle energie migliori della città, che non volevano rassegnarsi né al declino lento ma inesorabile che paventavano sarebbe arrivato con la vittoria già scritta del candidato di rifondazione e della Rete di Orlando e Dalla Chiesa, né al rischio che la voglia di innovazione che in città si percepiva potesse finire col premiare quello che consideravano il salto nel buio del candidato leghista.

A Milano invece, dove si scelse l’unità della sinistra, la competizione finì proprio con il trionfo della Lega con Formentini.

 

When in trouble, go big!

Quello di Torino fu un azzardo: Castellani arrivò al ballottaggio per poco più di 5000 voti. Ma trionfò al ballottaggio (prese 280.000 voti, per un termine di paragone quelli della Appendino al ballottaggio furono 200.000) regalando alla città una stagione di rinascita durata quasi un quarto di secolo. 

Fu un azzardo, ma come ci ricorderebbe lo stesso Francesco Costa, when in trouble, go big!

Quando sei in difficoltà, mira in alto. E a Roma le difficoltà mi sembra non manchino.

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