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Accordo PD-M5S: l’ipotesi impossibile

Vittorio Ferla venerdì 4 Maggio 2018
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di Vittorio Ferla

 

L’ipotesi di un accordo politico tra PD e M5S è definitivamente sfumata dopo l’intervista di Matteo Renzi da Fazio. In molti, oggi, tirano un respiro di sollievo. Ma in tanti ci avevano sperato. In ogni caso, l’ipotesi ha scatenato un dibattito molto acceso all’interno del Partito Democratico (e, probabilmente, anche all’interno del M5S, ma per gli usi di quel partito non è permesso a noi cittadini di venirne a conoscenza).

Nonostante il dietrofront successivo, emerso dalla relazione introduttiva del segretario reggente alla Direzione nazionale del Pd, l’ipotesi dell’accordo – che Di Maio riduce a ‘contratto’, proprio per marcare uno iato che sarebbe superato in caso di ‘alleanza’ – è stata sostenuta nel partito democratico da diversi autorevoli esponenti. Può essere utile, pertanto, riprendere il tema con un po’ di scrupolo.

Nell’ipotesi di accordo abbiamo rilevato, in sintesi, tre diverse declinazioni.

La prima è, sostanzialmente, tattica. Si diceva: la sconfitta elettorale deve farci riflettere sul rischio di restare completamente emarginati di fronte ad avversari che oggi hanno numeri ben superiori. Partecipare ad un governo con il M5S, guidando qualche ministero strategico, permetterebbe al Pd di restare in campo e giocarsi qualche buona carta per il futuro. Inoltre, in questo modo, il Pd parteciperebbe anche alla definizione di alcune importanti nomine che il prossimo governo dovrà fare: si impedirebbe così che tutte le caselle siano riempite da soggetti ‘fedeli’ ai Cinquestelle.

La seconda declinazione è strategica. Si diceva: il voto ha scompaginato il sistema politico italiano confermando uno schema tripolare. Allo stesso tempo, solo due poli su tre possono contare su numeri significativi, essendo il terzo (il Pd e quel pochissimo che resta dei cascami del centrosinistra) ridotto ad un modesto 20% dell’elettorato. Per questa ragione, essendo il Pd alternativo alla destra a trazione leghista, la cosa più conveniente è assecondare la formazione di un bipolarismo nuovo riconoscendo il ruolo del M5S come formazione progressista sensibile alla domanda di protezione sociale che proviene soprattutto dal Sud. I passaggi successivi sarebbero due: sganciare il M5S dall’abbraccio con la Lega, evitando così un ‘superpolo’ populista che procurerebbe danni irreparabili per il paese; allearsi con il M5S per ‘addomesticarlo’, smussandone gli spigoli massimalistici, ma esaltandone la propensione egualitaria. In questo modo, nel tempo, Pd e M5S potrebbero rappresentare quel polo progressista capace di tornare a competere con il centrodestra che nel Nord supera abbondantemente il 50% dell’elettorato. Per una parte della sinistra del Pd, questa soluzione aveva anche qualcosa della ‘purificazione’ dopo gli anni allegri del riformismo liberale e muscolare e poteva diventare un modo per recuperare quella porzione di voto di sinistra in fuga verso i Cinquestelle.

La terza declinazione è visionaria. Si dice: un tentativo di accordo con il M5S è accettabile se si mette in campo la prospettiva ambiziosa di contribuire alla riforma dell’Europa insieme con Macron. In sostanza, nelle condizioni date, l’unica via per rendere compatibile la riduzione del debito con una crescita almeno moderata è stato in questi anni il “sentiero stretto” seguito dai governi del Pd. Oggi questa soluzione è uscita sconfitta dalle urne. Pertanto, l’unico modo per uscire dal debito in modo sostenibile e per rilanciare gli investimenti è quello di consentire la capacità di bilancio dell’Eurozona che potrebbe far ripartire la crescita e l’occupazione anche in Italia. Per raggiungere questo obiettivo bisogna aiutare Macron nei negoziati con gli altri partner europei.

Ciascuna di queste opzioni propone argomenti di interesse, ma solleva pure rilevanti interrogativi.

Si parte dall’ipotesi 1) per chiedersi, tra le altre cose: su quali obiettivi si sarebbe chiuso l’accordo? la conclusione dell’accordo sarebbe rispettosa dell’esito elettorale? L’analisi del prof. Della Cananea spiega chiaramente che i motivi di distanza sono prevalenti. Ma questo, ovviamente, non sarebbe sufficiente per non tentare. Allo stesso tempo, la lista dei ‘temi’ – come la chiama Di Maio – risulta davvero generica: difficile cominciare un percorso senza avere una bussola. La bussola dei 5S, ad oggi, è chiara: si basa sulla leadership di Di Maio – presentata come indiscutibile – e sulla rinuncia del Pd alle politiche realizzate con i governi Renzi-Gentiloni (ma anche Monti). Il Pd era pronto ad accettare questa resa incondizionata, rinnegando la base riformista del proprio operato al governo? In qualche momento è parso di si: le dichiarazioni del segretario reggente – con generici richiami all’Europa, al rinnovamento della democrazia e alle sofferenze sociali – non avevano chiarito, infatti, quali condizioni il Pd avrebbe messo sul tavolo. L’esito di una trattativa così condotta – senza fisionomia precisa, ma solo in nome della ‘responsabilità’ – non lasciava spazio a dubbi: come è sempre accaduto in passato il socio maggioritario di governo è quello che dà la linea; la minoranza responsabile sta al traino, ‘tira a campare’, e, alla fine, normalmente, viene riassorbita.

L’ipotesi 2), essendo strategica, poneva un problema ancora più serio: è possibile costruire un polo progressista con i Cinquestelle? Su quali basi ideali e programmatiche? Qui entra in campo il profilo identitario delle due compagini. Il M5S è, in sostanza, un partito a vocazione totalitaria: per il modo in cui controlla i suoi parlamentari, per l’idea di rappresentare come corpo organico i cittadini, per la convinzione che in Italia non vi è democrazia possibile senza di esso. Sul piano programmatico, i Cinquestelle ripropongono un mix di misure ispirate al pauperismo, al ‘benecomunismo’ e all’assistenzialismo tipico di una sinistra nostalgica e antiliberale. Che tipo di convergenza programmatica può avere, con questa roba qui, il Partito Democratico che è nato sulla base del discorso del Lingotto e che si è affermato con la stagione di riforme liberali dei governi Renzi e Gentiloni? E’ sensato pensare – con un eccesso di illuminismo e paternalismo – che il M5S possa essere addomesticato? E ancora: perché dare per scontato che il sistema politico si sia già ridefinito? Dove è scritto che il M5S possa mantenere il suo peso attuale, specie dopo il risultato delle elezioni in Friuli Venezia Giulia dove i grillini sono stati parecchi ridimensionato? Perché il PD non dovrebbe aspirare a recuperare una dimensione elettorale maggioritaria tuta sua, giocando la partita a viso aperto, piuttosto che andarsi a rannicchiare nell’albergo dei Cinquestelle?

L’ipotesi 3) è la più affascinante dal punto di vista ideale. Allo stesso tempo, però, è la più complicata. Non soltanto perché ardua in sé, anche per un governo iper-europeista. Ma perché il M5S non ha mai dimostrato – e non lo ha fatto perché non è presente nella sua cultura politica – una visione strategica sull’Europa o, quantomeno, qualche idea sensata per la riforma dell’Eurozona. Il programma originario dei Cinquestelle è esplicitamente antieuropeo, contrario alla moneta unica, contrario alla collocazione atlantica. Le consultazioni al Quirinale hanno compiuto il miracolo di mettere sotto naftalina queste posizioni antagoniste, ma, per quanto trasformismo possa essere capace di esprimere il Movimento, è assai complicato riciclarsi adesso come europeisti entusiasti senza averne nemmeno i fondamentali.

Da questi passaggi possiamo ricavare con una certa sicurezza che la deflagrazione provocata da Renzi in tv è causa non tanto e non soltanto della ruvidezza del personaggio, ma della estrema debolezza e impraticabilità della ipotesi di accordo immaginato da alcuni pezzi del partito. Piuttosto, sarà necessario per il futuro riscoprire le ragioni del riformismo del Pd per non correre davvero il rischio di esaurirsi come quei partiti socialisti europei – come per esempio quello francese – che non hanno avuto la forza di abbracciare con coraggio la modernità.

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