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di Vittorio Ferla

 

Ormai lo abbiamo capito: il lockdown dell’Italia durerà a lungo. Non bastano due settimane: ci vorranno mesi prima di azzerare i rischi di contagio. Sempre se tutti restiamo chiusi in casa, seguendo le indicazioni del governo. Ma anche questo non basterà: il rischio di contagio può tornare, o per l’ingresso di persone da altri paesi oppure per una recrudescenza nel periodo autunnale. Certo, possiamo contare nella scoperta risolutiva del vaccino: però, visto il tempo necessario tra ricerca, sperimentazione, produzione e diffusione, bisognerà attendere tra i 12 e i 18 mesi. E allora che si fa? Restiamo bloccati per sempre, con la certezza del tracollo dell’economia, della distruzione del lavoro e dell’impoverimento generalizzato? L’approccio clinico-ospedaliero non è sufficiente per affrontare una crisi del genere. E la Cina – nonostante l’inquietante moltiplicazione di italiani devoti del suo totalitarismo sanitario – non è affatto il modello preferibile per governare il problema.

La Technology Review del MIT di Boston segnala tra le buone pratiche il monitoraggio che la Corea del Sud sta realizzando sui cittadini in quarantena tramite una app per smartphone sviluppata dal Ministero degli Interni. In sostanza, come si legge nell’articolo in questione, “migliaia di persone nel lockdown del coronavirus saranno monitorate per rilevare i sintomi, per assicurarsi che restino a casa e che non diventino dei ‘super-diffusori’ del virus; per tenere traccia della loro posizione e per assicurarsi che non stiano rompendo la quarantena sarà utilizzato anche il GPS”. L’adozione di queste misure di monitoraggio tecnologico ha considerevolmente limitato l’esplosione dei contagi e, di conseguenza, dei decessi. “Per monitorare le persone in quarantena le amministrazioni locali hanno risorse umane limitate”, afferma Jung Chang-hyun, funzionario del ministero che ha supervisionato lo sviluppo dell’app. “Così, questo servizio di supporto rende più efficiente l’attività di osservazione”.

L’app si unisce ad altre misure pensate per frenare l’ondata di nuovi casi in Corea del Sud: le stazioni di test “drive-through” per verificare la positività al coronavirus (circa 15 mila al giorno in più), una serie di servizi cartografici sviluppati da privati che monitorano gli spostamenti dei positivi, gli avvisi di emergenza che i governi locali inviano regolarmente ai telefoni delle persone per informarli di nuovi casi di coronavirus. In Corea del Sud, dopo l’esplosione iniziale, la curva dei contagi ha già iniziato a flettere: ad oggi, sono morti circa 70 pazienti su circa 8 mila contagiati. Numeri irrisori rispetto al caso dell’Italia. Il governo sudcoreano è pure disponibile a condividere la sua tecnologia: “Non abbiamo ancora avuto richieste da altri paesi, ma se arrivassero, saremmo pronti a condividere assolutamente queste esperienze”, assicura Jung. Ma le istituzioni italiane per ora sembrano del tutto sorde a questi strumenti. Nelle settimane scorse Alfonso Fuggetta, docente del Politecnico, e Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente della Bocconi, si sono offerti per progettare strumenti di tracciatura digitale, ma sono rimasti inascoltati. E la politica? In un comunicato del 18 marzo, Matteo Renzi ha dichiarato: “Facciamo come la Corea del Sud: tracciamo i movimenti delle persone per diminuire i contagi. In più gli strumenti tecnologici servono per evitare di ricadere nella pandemia”. Speriamo che la risposta non sia di nuovo “no”. Magari soltanto perché lo ha detto Renzi.

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