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Anniversari/ Riparte la stagione delle riforme, prendere spunto da Moro e Ruffilli

Vittorio Ferla mercoledì 10 Maggio 2023
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di Vittorio Ferla

 

Per una imprevedibile congiuntura, l’avvio del dialogo sulle riforme costituzionali tra maggioranza e opposizione inizia proprio il 9 maggio, una data densa di significati poiché coincide con la giornata dell’Europa e con l’anniversario della morte di Aldo Moro nel 1978. A 45 anni da quel tragico evento che ha segnato la nostra storia, il sistema politico italiano non ha ancora sciolto il nodo dell’aggiornamento costituzionale. Allo stesso tempo, la giornata dell’Europa – collocata nello stesso giorno della dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, considerata il primo atto ufficiale del processo processo di integrazione europea – aiuta a contestualizzare le fonti storico-politiche del nostro costituzionalismo e indica la sua possibile evoluzione.

Il 1978 è un anno di svolta nella storia della Repubblica: lì inizia un dibattito sul superamento della “democrazia bloccata”: così la definiva Aldo Moro. Come ricorda bene il costituzionalista Stefano Ceccanti in un intervento sui discorsi di Moro – pronunciato ieri nel corso del convegno dell’Università La Sapienza a Roma dal titolo “In ricordo di Aldo Moro, tra passato e futuro” – è bene partire da un punto dirimente: l’inestricabile intreccio tra l’appartenenza alla Nato e l’adesione alla comunità europea. Per lo statista pugliese l’impossibilità dell’alternanza tra i due poli del tempo – egemonizzati dal Dc e Pci – con la conseguente “cristallizzazione della situazione politica”, va addebitata a quei partiti che non accettavano l’alleanza eurotlantica. Prima di tutto, il Partito comunista. Che aveva sì contribuito alla scrittura della carta fondamentale nel nome dell’antifascismo e della Resistenza, ma che poi, incastrato nella fedeltà all’Urss, proponeva “un significato di democrazia che sostanzialmente contrasta con un autentico ideale democratico”. Inoltre, a dispetto di quanti oggi pongono in contraddizione l’adesione alla Nato e l’adesione alla Ue, è bene ricordare che per Moro il fallimento della Comunità europea di difesa (Ced) nel 1954 fu provocato dai nazionalismi europei non certo dall’influenza degli Stati Uniti, favorevoli viceversa a un maggiore protagonismo strategico dei paesi dell’Europa occidentale. In un discorso del 23 dicembre 1954 alla Camera, Moro chiarirà così il valore quasi ‘costituzionale’ dello schema euroatlantico: “La nostra politica ha proceduto in questi anni secondo queste due direttive: formare e rafforzare una solidarietà occidentale in senso generale; inserire, nell’ambito della generale solidarietà dell’occidente, una particolare comunità europea”. Uno schema duraturo se si pensa alla lezione attuale di Sergio Mattarella. Sulla scia del pensiero di Moro, il presidente della Repubblica ha precisato più volte in questi mesi l’intreccio profondo tra l’Alleanza atlantica e l’Unione europea. Oggi, nella sostanza, la generalità dei partiti italiani ha accettato nei fatti la scelta fondativa euroatlantica. Ci troviamo pertanto in quella situazione ideale che per Moro era ancora tutta da conquistare. Questo progresso apre, da una parte, alla pratica dell’alternanza che sblocca la nostra democrazia e, dall’altra, alla possibilità di un approccio condiviso alla revisione costituzionale. E se ancora alcuni settori della sinistra radicale e grillina restano imbevuti di una cultura antiatlantista e antiamericana, la premier Giorgia Meloni ha varcato quel guado che ancora tratteneva la tradizione della destra post fascista nella diffidenza. È proprio grazie all’accettazione della postura euroatlantica che la premier può oggi rivendicare la legittimazione a riformare la carta costituzionale.

Tornando al legame tra la lezione di Aldo Moro e le riforme istituzionali, è bene sottolineare altri due elementi. Il primo: se l’apertura all’alternanza è auspicabile, la conseguenza è che si rendono necessarie delle regole capaci di incentivarla. Lo schema della ‘solidarietà nazionale’ promosso dal segretario della Dc con l’obiettivo di coinvolgere il Pci in una logica di sistema, costringendolo ad uscire dall’isolamento e contribuendo all’ “allargamento della base democratica” della Repubblica si arenò con la brutale eliminazione dello statista da parte delle Brigate Rosse. Moro, purtroppo, non ha avuto il tempo di formulare proposte concrete di riforma a sostegno del processo politico da lui promosso. Tuttavia, Moro non aveva pregiudizi verso l’opera di revisione costituzionale. Di più, sapeva che la logica proporzionalistica aveva un senso in una democrazia bloccata (poiché garantiva la massima coesione possibile in un mondo fratturato tra l’Est totalitario e l’Ovest democratico), ma in una democrazia dell’alternanza i partiti avrebbero potuto adottare regole diverse più adatte al nuovo schema. Interprete fedele di questa visione morotea fu Roberto Ruffilli, politologo e consigliere della Dc sulle riforme, assassinato anche lui dalle Brigate Rosse nel 1988, esattamente 35 anni fa. Ruffilli aveva la consapevolezza che la “terza fase” – così la chiamava Moro – proiettata verso l’alternanza, dovesse essere incentivata da nuove regole elettorali e istituzionali e non solo da dinamiche squisitamente politiche. In un suo celebre libro del 1988 – “Il cittadino come arbitro” – Ruffilli riconosceva che, una volta consolidata la collocazione euroatlantica delle principali forze politiche e inibiti gli estremismi autoritari, diventava necessario un chiaro rapporto tra consenso, poteri e responsabilità. Il cittadino diventa centrale, da una parte, attraverso l’elezione del Parlamento e, dall’altra, attraverso la scelta di una coalizione di governo per l’intera legislatura. Trent’anni fa, i referendum elettorali del 1993 avevano aperto un varco per queste idee, poi richiuso dal conservatorismo autoreferenziale dei partiti (basti pensare alla legge Calderoli). Oggi però le idee di Ruffilli e di Moro ritornano di attualità. Il confronto tra maggioranza e opposizione sulle riforme, appena avviato, dovrebbe farne tesoro.

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