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Cambiare la forma di governo? Qualcosa ricomincia a muoversi

Carlo Fusaro giovedì 21 Aprile 2022
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di Carlo Fusaro

A quasi sei anni dal referendum del 2016, qualcosina si comincia di nuovo a muovere nel campo ahimè poco fertile e sempre minato delle riforme istituzionali e politiche. Non che ci si possa aspettar nulla da questa legislatura che già è molto se riuscirà a rivedere i regolamenti parlamentari e soprattutto ad assecondare l’immenso sforzo del governo e di tutti gli enti territoriali ad attuare il PNRR e a fronteggiare quel che resta della crisi pandemica e la ben più drammatica situazione innescata dall’aggressione della Russia all’Ucraina.

Il fatto è che è davvero difficile negare che il nostro sistema politico-istituzionale così com’è non funziona. Se ne hanno riprove continue e del resto non si va avanti (da anni) senza soluzioni a loro volta emergenziali magari tirate fuori dal cilindro di presidenti della Repubblica sempre più tutori di cui non riusciamo proprio a fare a meno. (Intanto in giro non ce la si passa così bene, ma comunque un po’ meglio: vedi Germania, vedi Francia, vedi perfino Regno Unito e Spagna e Portogallo, e mi fermo qui. Molto si deve – vedi Francia – ai meccanismi istituzionali che sopperiscono alle debolezze di sistam partitico, lì non minori che da noi.)

Qui mi limito a segnalare alcuni punti sul piano politico e sul piano culturale. Alcuni intellettuali stanno rilanciando il tema della riforma della forma di governo: segnalo Giovanni Cominelli, segnalo Giovanni Guzzetta, segnalo in ultimo Andrea Manzella.

Mi soffermo su quest’ultimo, grande protagonista del dibattito istituzionale riformista degli ultimi cinquanta anni: grande e influente quanto moderato e prudente, convinto paladino del regime parlamentare. Se anche lui, in un articolo sul “CorSera” (19 aprile) torna a denunciare (citando la Costituente) “le degenerazioni del parlamentarismo” e se espressamente riconosce a una recente iniziativa presidenzialista dell’opposizione di destra (di Fratelli d’Italia) il merito di ricordare a tutti che la questione costituzionale è diventata ineludibile, beh allora questo è un segnale non da poco. Certo: anch’io ho pensato che nei contenuti specifici quella proposta fosse mal costruita e perfino contraddittoria. Ma d’altra parte anche Italia Viva, meritoriamente, rilancia il tema presidenzialista all’insegna dell’elezione del sindaco d’Italia. Tutte soluzioni di cui parlare, da verificare. Ma resta il punto: vogliamo tornare a metterci a discutere – tutti – sulla sacrosanta esigenza di rafforzare esecutivo (e quindi Parlamento) come abbiam fin qui ostinatamente rifiutato di fare, pagando prezzi, che è difficile calcolare, alla nostra cronica e imperdonabile ingovernabilità?

Al riguardo, vera e propria cartina di tornasole, mi han fatto impressione le parole del presidente Draghi nella sua intervista al direttore del “Corriere” del 17 aprile. Ha detto due cose decisive: primo, a domanda, ha risposto «ho… l’intenzione di governare, affrontare le emergenze secondo il mandato che il presidente della Repubblica mi ha dato lo scorso febbraio [2021]» (mandato del presidente, chiaro?); secondo, ha aggiunto, dopo essersi definito “primo ministro [sic] esterno alla politica”: «…questo posto [di presidente del Consiglio] è per una persona scelta dagli italiani. Bisognerebbe che i presidenti del Consiglio fossero tutti eletti».

Draghi non è un costituzionalista e può darsi che non abbia inteso dire “eletto” in senso tecnico. Non indicava insomma una specifica soluzione: ma certo indicava l’esigenza (sì: presidenzialista!) di una investitura diretta e di una legittimazione, sostanziale o formale, di chi deve guidare il paese per una legislatura intera.

Provassimo a prenderne atto e ricominciassimo a discutere, prima che dell’ennesimo aggiustamento alle leggi elettorali, di costituzione e forma di governo, per prendere di petto la questione appena possibile?

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