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Cari costituzionalisti del No siete fuori strada: la riforma non comporta danni né rischi

Carlo Fusaro lunedì 31 Agosto 2020
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di Carlo Fusaro

 

A proposito della lettera di oltre 200 costituzionalisti, pubblicata da Huffpost, in favore del No al referendum sul taglio dei parlamentari.

 

Una serie folta di colleghi (inizialmente 183, ora di più), fra i quali fautori del Sì e del No alla riforma Renzi-Boschi (i secondi ad occhio più numerosi) hanno lanciato, in risposta al direttore dell’HuffingtonPost, un appello per il NO al referendum del 20 e 21 settembre 2020. Essi ritengono che sia più opportuno che i deputati restino 630 e senatori 315, invece che ridursi rispettivamente a 400 e 200.

Le loro, affermano, sarebbero ragioni che definiscono “tecniche” e si pronunciano in quanto costituzionalisti. Sono convinti che, nonostante la revisione sia puntuale (e così puntuale che più puntuale non si può), riducendo il numero dei parlamentari senza toccare altro (tralascio la faccenda quasi scontata dei senatori di nomina presidenziale), il solo fatto della riduzione “avrebbe un impatto notevole sulla forma di Stato e sulla forma di governo del nostro ordinamento”.

Trovo doveroso, da fautore del Sì che si è occupato di diritto costituzionale e di riforme, prenderli sul serio e discutere ciò che scrivono, passando in rassegna i cinque punti del loro documento.

Il punto 1, in realtà è dato da una serie (direi una collazione) di affermazioni che, forse per brevità (ma non erano “tecniche”?) restano apodittiche e senza non dico dimostrazione, ma motivazione: tanto che potrebbero essere quasi tutte rovesciate. Faccio alcuni esempi. Leggo: “la riforma svilisce il ruolo del Parlamento”. Domando: perché? Ridurre la composizione di un organo comporta di per sé lo svilimento del suo ruolo? E allora aumentarla produrrebbe l’esito opposto? Non potrei io affermare con uguale legittimità anche tecnica che è l’opposto, e che la riduzione potrebbe al contrario rilanciare il ruolo del Parlamento (v. Luigi Einaudi)?

Ancora: “la riforma riduce la rappresentatività del Parlamento”. Anche qui: la rappresentatività è funzione del numero dei componenti? O di altro, come sarei portato a pensare? Certo, ciò vale al di sopra di un certo numero: si capisce che se si riducesse l’organo da 630 a 63 rilevanti problemi di rappresentatività, intesa appunto come capacità di rappresentare il corpo elettorale, si porrebbero. Ma qui partiamo da varie centinaia e restiamo nell’ordine delle varie centinaia, anche per il Senato: quante sono nel mondo le assemblee politiche nazionali con meno di 200 componenti? Bene, sono 126 su 193 paesi censiti. Certo tutti diversi dall’Italia e fra loro: ma possibile considerarle, tutte o per lo più, “scarsamente rappresentative”?

Continua: questo svilimento e questa riduzione di rappresentatività (entrambe legate al solo numero) non offrono “vantaggi apprezzabili né sul piano dell’efficienza delle istituzioni democratiche né su quello del risparmio della spesa pubblica…”. Così sentenzia il testo. Perché però non viene detto.

Si aggiunge, che, in ogni caso, l’”entità irrisoria” dei tagli (dal punto di vista dei costi) sarebbe “argomento inaccettabile” perché “gli strumenti democratici basilari… non possono essere sacrificati o depotenziati a mere esigenze di risparmio”. Anche qui, niente argomenti, ma semplici petizioni di principio: in quest’ultimo caso anche condivisibili, ma non in assoluto. Chi non sarebbe a favore di un ridimensionamento del bilancio di una o entrambe le Camere se vi fosse la ragionevole valutazione che sono eccessivi e mal gestiti? Come non capire che se è ovvio che le istituzioni politiche hanno un costo che vale mille volte la pena sostenere, è altrettanto ovvio che queste medesime istituzioni hanno il dovere della spesa trasparente e contenuta e che il rapporto coi cittadini si gioca anche (ho scritto anche) mostrando rigore e austerità? E allora, si ragioni.

Io mi limito a ricordare che il nostro Parlamento è uno dei più onerosi al mondo, e certamente il più costoso d’Europa. Sulla base dei dati dell’Unione interparlamentare o diretti, il Bundestag costa 974 milioni di euro (2019), l’Assemblea nazionale francese 576, il Sejm polacco 481, il Congresso dei deputati spagnolo 86, la Camera dei comuni 226 milioni (sterline). Sono dati 2017. Le Camere italiane nel 2018 sono costate rispettivamente 974 e 539 milioni (più del Congresso degli Stati Uniti, meno del Parlamento europeo che però ha il problema del via vai con Strasburgo e delle traduzioni). Dunque quelle italiane non sono cifrette: né in assoluto né comparativamente. In pratica ogni parlamentare “costa” in media oltre 1,5 milioni l’anno. Il punto non è se sono soldi ben spesi: il punto è se è proprio indispensabile spenderne tanti. Oltretutto l’”irrisorietà” fa parte della sloganistica. Perché è chiaro che, subito dopo la riduzione, i risparmi saranno relativamente modesti: ci sono costi fissi che si sostengono quale che sia il numero dei parlamentari, a partire dalla spesa pensionistica (una delle voci più rilevanti).

Ma a regime, dopo una ventina d’anni, il ridimensionamento sarà davvero quasi proporzionale alla riduzione: cioè da un quarto a un terzo. Chi irride a queste cifre (fino a mezzo miliardo di euro ogni anno) non si rende conto del danno che fa al rapporto cittadini-istituzioni. Ma anche a stare ai risparmi immediati (il famoso caffè per ogni italiano correttamente calcolato da Cottarelli), visto che siamo fra accademici: quante borse di dottorato si finanzierebbero con 57 milioni di euro (non dico 500)? O quanti salari per studenti si potrebbero pagare? Molte migliaia. E non si pensa che sarebbero risorse meglio spese che per camere ipertrofiche? Come sottovalutare il valore non populista ma simbolicamente significativo di una scelta così?

Il documento prosegue dicendo che la legge di revisione non tocca il bicameralismo indifferenziato: questa è la teoria secondo la quale quando c’era la riforma organica, una bella fetta di accademia ci ha spiegato che le riforme devono invece essere puntuali (per permettere all’elettore di votare distinguendo, tesi per me assurda, ma tant’è), mentre ora, che la riforma è puntuale, ci viene detto che invece avrebbe dovuto essere organica!

Si accusano poi – gratuitamente, almeno nella gran parte dei casi – i fautori del Sì di fare comparazioni insostenibili fra paesi diversi con regimi diversi e popolazione di diversa dimensione. Peccato che la pletoricità della somma di componenti delle due Camere italiane (ma, oggi, perfino della sola Camera dei deputati!) è tale da sfidare qualsiasi tipo di comparazione!

Si arriva al punto 2. che ha il merito di essere specifico: si torna alla teoria della rappresentatività come diretta funzione del numero dei componenti e si contesta l’argomento, che a me pare, umilmente, piuttosto ragionevole, secondo il quale oggi il cittadino elegge anche consiglieri regionali e parlamentari europei. I quali, certo, fanno altre cose e non sono, per definizione, rappresentanza nazionale: sono altro genere di rappresentanza. Ma come si può negare che oggi – rispetto sia al 1948 sia al 1963 (quando i 630 + 315 furono fissati), la funzione legislativa delle Camere è assai ridimensionata? Beninteso, hanno altre funzioni (ispettiva, di controllo, indirizzo politico), cui purtroppo, a me pare, attendono in misura spesso inadeguata: e non per mancanza di tempo o di… teste e braccia.

Il punto 3. denuncia che la riforma “riduce in maniera sproporzionata e irragionevole la rappresentanza di interi territori”: in realtà è il contrario. La riduzione come congegnata riduce, non aumenta la disproporzionalità che c’è da sempre, per il buon motivo che il costituente volle un numero minimo di senatori per regione: sei, portati a sette nel 1963, ora ridotti a tre. La riduzione consente una minore disproporzionalità a vantaggio delle regioni più piccole. Quanto alla tesi ad effetto che raffronta il Trentino-Südtirol con altre regioni, non fa onore a chi lo usa: lo sanno anche i liceali che in realtà le due Province autonome di Trento e di Bolzano sono de facto regioni, quindi non può che toccargli il minimo di tre (dal quale resta escluso, poverino, il solo Molise, oltre alla solita Valle d’Aosta: peraltro meno penalizzato di oggi che ha già due senatori, mentre la confinante Basilicata, con un popolazione men che doppia, ne ha sette, per cui i molisani eleggono un senatore ogni 151.000 abitanti, i vicini uno ogni 80.000! si lamentano perché passano a 1 ogni 185.000, con media italiana di 300.000! Come al solito limitare un privilegio, pur senza abolirlo, diventa una… inaccettabile punizione. La Basilicata ha perfino avuto la sfrontatezza di sollevare un inammissibile conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale). Argomento chiuso.

Il punto 4. torna sulla critica secondo la quale la revisione costituzionale oggetto del referendum non modifica il bicameralismo indifferenziato: come se pretendesse di farlo o se qualcuno avesse mai avuto l’ardire di sostenere una tale sciocchezza. Aggiunge però che i difetti del c.d. bicameralismo perfetto sarebbero aggravati: al lettore per quanto ben disposto sfugge qualsiasi motivazione che suffraghi tale affermazione. Il vero è che, purtroppo, la novità è nella sola riduzione: avendo il corpo elettorale detto due volte no a riforme organiche, questo passa il convento. E si tratta solo di decidere se – a parità di tutto il resto – è meglio passare a 400 + 200 oppure è meglio tenersi i 630 + 315.

Il punto 5. consiste in un argomento che di tecnico, a me pare abbia pochino: si fa la caricatura delle posizioni della forza politica di maggioranza, il M5S, per attribuire all’intera riforma e a tutti i suoi sostenitori le motivazioni addotte appunto dal M5S, dimenticando non solo che si sta discutendo di una modifica costituzionale votata da tutte le forze politiche parlamentari (+Europa esclusa), ma dai più auspicata da tempo, dentro e fuori il quadro di una revisione organica del bicameralismo (ad es., v. per tutte la proposta AS 1178 XVI legislatura a prime firme Zanda, Finocchiaro, PD: identica anche nei dettagli a questa riduzione. Il M5S neppure era nato!).

Il testo conclude come aveva iniziato: con molteplici affermazioni apodittiche, alcune delle quali ripetute per la terza o quarta volta. La riduzione dei parlamentari penalizzerebbe la rappresentanza delle minoranze, non esiste rapporto inversamente proporzionale tra numero e qualità dei parlamentari, si rischia un più penetrante controllo dei parlamentari da parte dei capigruppo (altri critici sostengono però l’opposto, e dicono che il minor numero renderà ogni singolo senatore potentissimo e decisivo).

Infine, si dedicano alcune righe alla legge elettorale mostrando di considerarla una specie di conseguenza necessaria (ma incerta, il che sembra preoccupare) della riduzione, per evitare i temuti (ma indimostrati) “squilibri”. Io non sono affatto di quest’avviso, ma tant’è: un’opinione vale l’altra. Basta non si accrediti la tesi, tecnicamente assurda, che viene sostenuta solo per ragioni strettamente politiche secondo la quale meglio sarebbe stato, se non doveroso, varare prima una legge elettorale ancora più proporzionale dell’attuale (cosa oltretutto impossibile).

La conclusione è in linea con il resto. Si evoca, per avere un facile oggetto di critica, la presunta intenzione di “pensare alle riforme costituzionali come ad azioni dirette a causare shock a un sistema politico-partitico incapace di autoriformarsi, nella speranza che l’evento traumatico possa innescare azioni benefiche” (chi l’ha detto? Si è solo detto, il Sì potrebbe dimostrare che qualcosina si può cambiare senza drammi né sconquassi, serenamente); si ri-parla di “riforma monca e destabilizzante” (non è monca per niente, è limitata nello scopo) e si finisce richiamando un mitico argomento del No nel 2016: se si respinge questa riduzione diventeranno possibili le riforme “vere” e si creerà, per miracolo, lo spazio “per proposte equilibrate…”. Si è visto, infatti.

Mi spiace, non ci siamo. E tutto c’entra tranne la tecnica costituzionale. La revisione approvata e sottoposta ai cittadini è una modesta, limitata innovazione, che funziona a prescindere da qualsiasi adempimento successivo, non comporta danni né rischi, forse (dico forse) può migliorare l’efficienza di un bicameralismo che assurdo è e assurdo resta, e che, almeno, costituisce un primo segnale che le istituzioni politiche (il Parlamento che i fautori del No vorrebbero, essi sì, umiliare, smentendolo clamorosamente un’altra volta) cominciano a rendersi conto che è tempo di sobrietà: a partire dalla consistenza della classe politica parlamentare (alcuni dei componenti della quale dovrebbero spiegarci come, dopo aver votato solennemente sì in Parlamento, possono ora sostenere il no alla riduzione: senza rendersi conto di fornire a questa un’ottima motivazione in più).

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