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Come distruggere un partito e regalare le riforme alla Meloni

Carlo Fusaro sabato 2 Settembre 2023
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di Carlo Fusaro

La segretaria del Pd, forte solo del suo radioso sorriso, sta davvero facendo di tutto per distruggere il partito che le si è incautamente affidato, eleggendo un’esterna (anzi: con scelta mai vista prima in alcun partito, a una propria fuoriuscita).
I partiti ovviamente evolvono. Cambiano (è bene cambino) leader e gruppi dirigenti. Craxi era molto diverso da De Martino; Corbyn diversissimo da Blair e Keir Starmer da Corbyn (beati loro); e così via. Ma un partito degno di questo nome non può cambiare d’identità ogni pie’ sospinto; non può rinnegare se stesso perché è cambiata la dirigenza. Non può nel 2023 aderire a ipotesi di referendum contro una legge (oltretutto di successo, ancorché correggibile) che era stata la sua bandiera (ed era stata contrastata dai suoi avversari). E non entro nel merito del c.d. Jobs Act. Potrà andare oltre il Job Act, ma non assecondare la campagna (stolta a mio avviso, ma non entro nel merito) di una parte del sindacato.
Lo stesso vale per le riforme istituzionali. Come fa Schlein a tornare allo stolido slogan di 40 anni fa secondo il quale “la Costituzione va attuata prima di modificarla”? Non si rende conto la segretaria Pd che è sulla strada di regalare un tema fondamentale alle destre, ben liete di farne un proprio semi-monopolio?
E sì che non solo il Pd, ma perfino il partito che ne ha preceduto la parte diciamo per semplicità “più a sinistra”, ha alle spalle una solida, coerente, continua tradizione a favore del rafforzamento della nostra forma di governo (e del superamento del bicameralismo) che risale a dir poco ad Achille Occhetto (non propriamente un campione del moderatume o della reazione).
Di questa tradizione l’esempio più limpido ed utile ai fini del dibattito odierno è l’ipotesi avanzata ben 26 anni fa da Cesare Salvi (uno che – per gli immemori e i più giovani – NON aderì da sinistra al Pd, tanto per capirci). In quel progetto si coglieva alla perfezione la linea mediana fra pura e semplice elezione diretta del presidente del Consiglio (oggi in sintesi “sindaco d’Italia”) e i pannicelli caldi di un sistema tutto parlamentare alla tedesca: con una formula che rispondeva alla critica che da sempre si rivolge al modello sindaco d’Italia (eccessiva rigidità). E che il Pd dovrebbe avere la saggezza e l’intelligenza politica di rilanciare sia perché è una buona soluzione sia perché può mettere d’accordo una pluralità di forze politiche sia, infine, perché consentirebbe di NON regalare le riforme alla destra meloniana.
Ma non mi illudo più, ormai, in una resipiscenza. Quando mancano le basi culturali e politiche e tutto si riduce a slogan, che sia l’ultimo alla moda o il recupero di vecchie e stantie parole d’ordine, c’è poco da sperare.

P.S. Ci tornerò. Ma per favore non tiriamo fuori, a pappagallo, la storia che il premierato elettivo in Israele è fallito. Primo perché i modelli di cui si parla in Italia sono diversi, secondo perché non funzionò proprio perché lo si volle accoppiare al mantenimento della legge elettorale iperproporzionale che garantiva (e garantisce) la folle frammentazione della Knesset. Mentre sia nel progetto Salvi sia nei progetti italiani l’investitura elettorale del primo ministro sarebbe strettamente conseguente ad una appropriata legge elettorale.

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