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di Massimo Veltri

Il tema è delicato e pure importante, sollevato senza peli sulla lingua da Cuperlo, candidato alla guida del Pd, se ancora si chiamerà e sarà il Pd.

È scorretto decontestualizzare una frase o un concetto, espungendoli, strumentalmente o ingenuamente poco importa, da un ragionamento che ha una sua premessa, uno svolgimento, una sua articolazione, ma nel caso in esame, essendo peraltro stato posto almeno un paio di volte a sostegno di una tesi motivata da argomentazioni coerenti, non sembra campato in area servirsene per poter svolgere una qualche riflessione non marginale, tutt’altro.
Cuperlo si chiede, retoricamente, da quanto tempo il partito per cui ha deciso di proporsi, non senza un certo travaglio, come segretario non porti in Parlamento un operaio, un esponente del lavoro per cui e in rappresentanza del quale nacque il Pci, la sinistra storica.
E la domanda, si diceva, è delicata e importante nello stesso tempo, si direbbe sdrucciolevole, paradigmatica di un messaggio politico identitario oltre che funzionale. Entrambe le cose: definisce un ceto sociale di riferimento e gli assegna un ruolo nelle massime assemblee elettive. Sdrucciolevole, pure, perché osare negare accesso o opportunità, scelta addirittura, per chi è l’esponente per eccellenza del lavoro subalterno, sfruttato, più gravoso, può configurarsi come atteggiamento aristocratico, snob, finanche razzista.
Il Pci e poi le altre denominazioni che via via ha assunto dopo la caduta del Muro hanno avuto compagini parlamentari in cui trovarono degnissima collocazione non pochi esponenti cui fa riferimento Cuperlo. Accanto a figure di altra espressione, formazione, funzione.
Se si va con la mente, però, a quanto Giuliano Amato ha dichiarato di recente, e difficile da non condividere: ‘La complessità del mondo di oggi trova la politica assolutamente impreparata ad affrontarlo’, e se fare politica può significare testimonianza o governo, rappresentanza o responsabilità, ecco che la questione posta da Cuperlo acquista una dimensione di chiarificazione che in buona misura ha il sapore di una rinuncia. Non che la sinistra non debba schierarsi con i deboli, nemmeno che la ricchezza prodotta non debba essere redistribuita in termini equi, ma il punto è proprio qui: schierarsi può significare solo fare opposizione, e: distribuire esime dal produrre, impegnarsi dall’interno è preferito dal manifestare in piazza?
A noi pare che la scelta a suo tempo fatta, quella di partito a vocazione maggioritaria, di governo, del blocco sociale fra borghesia produttiva laica e liberale e ceti popolari, se pure con errori clamorosi che ne hanno sbiadito e depotenziato la portata innovativa, non debba essere lasciata cadere, ribaltata, capovolta. E l’affermazione del cartello che ha portato Meloni a palazzo Chigi sta a dimostrare che un vento moderato e di destra c’è, uno di indecisi pure e forse attende segnali espliciti da una sinistra moderna.
Non si tratta di nominalismi ne’ di correnti e non è neppure problema di ceto politico. Riguarda volersi, e sapersi, misurare col mondo che cambia o rimanere al palo, se non addirittura indietro.
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