LibertàEguale

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di Nicolò Addario, Luciano Fasano e Mario Rodriguez

 

Con gli interventi di Enrico Morando e di Michele Salvati è tornata di attualità in Libertà Eguale la discussione sulla legge elettorale, sul proporzionale vs maggioritario. E questa riaccende anche la discussione su quella che fu chiamata la “vocazione maggioritaria”. Un tratto costitutivo della proposta politica fondativa del Pd che si proponeva infatti il perseguimento di un assetto del nostro sistema politico basato sull’alternanza e la stabilità dei governi, quindi maggioritario, favorendo in questo modo la ricerca di un consenso ampio e trasversale da parte dei partiti più credibili agli occhi degli elettori nel candidarsi alla guida del paese.

Siamo convinti però che sia opportuno collegare la riflessione sulla legge elettorale e, di conseguenza, sul modo di funzionare del governo con lo stato delle finanze pubbliche determinatosi prima con la grande recessione, poi con la pandemia e ora con l’aggressione della Russia all’Ucraina. Uno stato di cose che non ci sembra esagerato definire di vera e propria emergenza e che rende ancora più impellente l’esigenza di un governo stabile per una intera legislatura (o almeno vincoli le eventuali crisi politiche alla ricostituzione di una nuova maggioranza per garantire l’efficacia delle funzioni governative). Peraltro, un sistema politico perennemente soggetto alla possibilità di crisi e di cambiamento di maggioranze è ancor più esposto alla fibrillazione indotta dai sondaggi demoscopici che i media utilizzano per fare infotainment accrescendo così il proprio potere.

L’emergenza in atto è resa evidente dalle dimensioni di un debito pubblico come quello italiano, unico al mondo tra i paesi industrializzati – con la sola eccezione del Giappone – una emergenza che è stato possibile affrontare solo per la presenza e il prestigio internazionale di Draghi.

Si tenga presente però che diversamente del Giappone, il cui debito pubblico è quasi tutto nelle mani dei giapponesi, nel caso dell’Italia esso dipende in buona parte dai mercati internazionali (dai quali dipende l’interesse che si paga per i titoli italiani).

Quindi la discussione sulle leggi elettorali non può essere separata da quella sul concreto funzionamento delle istituzioni di governo, in una condizione di grave crisi della finanza pubblica. Il problema è perciò, in primo luogo, quello di garantire continuità ed efficacia della funzione governativa per l’intera legislatura.

La “vocazione maggioritaria” del nascente PD implicava proprio il perseguimento di questo obiet­tivo, via via poi di fatto diluitosi in leggi elettorali che di maggioritario avevano e hanno solo l’ap­parenza.

La ricerca della “vocazione maggioritaria”, infatti, poggiava sulla constatazione che la soluzione fino a quel momento data al problema della “governabilità”, come insieme di condizioni che a livello istituzionale – a partire dalla legge elettorale – avrebbero dovuto favorire l’insediamento di esecutivi sufficientemente stabili e coesi da esprimere un’effettiva capacità di governo, con la dinamica bipolare realizzata dalla legge Mattarella, non solo aveva incentivato la frammentazione, ma aveva anche finito con l’esaltare la polarizzazione ideologica (incentivando quelli che Brennan ha efficacemente chiamato “Hooligans”, grazie al “potere di veto” che ne alimentava l’indispensabile contributo per riuscire a vincere in una logica “first past the post”).

Il contrario di una competizione bipolare incentrata su due grandi partiti alternativi fra loro, relativamente egemoni nelle rispettive coalizioni, che si confrontavano su proposte di governo anzitutto credibili alla stragrande maggioranza degli elettori, su posizioni “mediane” e relativamente moderate. Basti pensare che Berlusconi caratterizzò la propria discesa in campo evocando il “pericolo comunista” e recuperando persino gli ex missini senza che questi avessero fatto una autentica revisione della loro ideologia. E che la sinistra, a sua volta, rispose a quella strategia, facendo dell’antiberlusconismo il principale collante della propria coalizione e sottovalutando la necessità di fornire all’elettorato un’offerta politica sufficientemente credibile in rapporto alla propria proposta alternativa di governo.

L’obiettivo che viceversa fin da allora si sarebbe voluto raggiungere, era quello di spingere partiti e schieramenti a costruire coalizioni alternative fondate su proposte programmatiche che potessero raccogliere un consenso sufficiente a garantire una stabile, coesa e duratura maggioranza di governo. E di farlo prima del voto, nella convinzione che è molto più difficile comporre maggioranze parlamentari stabili dopo campagne elettorali durante le quali partiti ed eletti si sono contrapposti in una competizione che necessariamente esalta le divisioni e radicalizza le proposte, alimentando la polarizzazione delle posizioni. Tale obiettivo non riusciva però ad affermarsi, venendo di fatto sacrificato sull’altare di un’alternanza di governo caratterizzata da esecutivi eterogenei, litigiosi e incapaci di condurre il paese lungo un percorso coerente ed efficace di riforme.

La contrapposizione ideologica che aveva caratterizzato la vita della cosiddetta Prima repubblica continuava invece a manifestarsi anche dopo la scomparsa di PCI, DC e degli altri partiti che ne erano stati protagonisti. E i successivi reiterati interventi sulla legge elettorale, dalla Calderoli all’Italicum (poi bocciata dalla Corte costituzionale), fino all’attuale legge Rosato, non erano in grado di rappresentare un’efficace soluzione a questo problema, per la debolezza dei sostenitori dell’opzione maggioritaria e per la convenienza di coloro che la contrastavano, preferendo sistemi elettorali orientati a neutralizzarne il più possibile gli eventuali effetti maggioritari. Con ciò, il Parlamento non ha mai avuto la forza e i numeri per favorire il cambiamento necessario, viceversa realizzato a livello degli Enti locali e delle Regioni.

In altri sistemi politici, la “governabilità” viene invece per lo più assicurata da condizioni istituzionali e politiche che favoriscono il predominio di due grandi partiti, uno progressista e uno conservatore. E in questi sistemi, fare alleanze con partiti minori per formare governi di coalizione non ha mai realmente inficiato la stabilità e la continuità dell’esecutivo per l’intera legislatura, sia che vincesse l’una o l’altra coalizione. Così come quando si è trattato di formare “grandi coalizioni”, come in Germania, che vedessero partecipi partiti conservatori e socialisti o social-democratici. Da noi, invece, piccoli partiti, correnti e fazioni, hanno sempre potuto esercitare un ruolo di “veto players”. E, di conseguenza, al posto della “governabilità” abbiamo continuato ad avere faticosi equilibri raggiunti sotto le più svariate pressioni, che spesso hanno trovato il punto di equilibrio nella pura spartizione di risorse pubbliche. Una pratica che, all’inizio di questa legislatura, è assurta a “contratto” (inefficace brutta copia delle grandi coalizioni tedesche fra CDU e SPD), con tanto di Forum per dirimere i contrasti, con il primo governo Conte, e che solo la nomina di Draghi e l’emergenza Covid19 ha interrotto (ma fino a quando?).

Anche per questo, a nostro parere, il rilancio del sistema elettorale proporzionale (anche con uno sbarramento significativo come in Germania, visto che uno sbarramento del 3% non servirebbe a molto, limitandosi sostanzialmente a fotografare una realtà che resterebbe ingovernabile) non farebbe che alimentare la frammentazione politica, la polarizzazione ideologica e governi deboli, continuando ad alimentare in tal modo le forze populiste e anti-sistema.

A questo punto, conviene tornare a ragionare sulla preferibilità del consolidamento del maggiori­tario, chiarendo al tempo stesso alcune cose per noi importanti.

1- La prima è che lasciando intatta la vigente legge elettorale o passando a un sistema del tutto proporzionale, è quasi certo che, visti anche gli andamenti registrati dai sondaggi demoscopici, verrebbe confermato l’attuale equilibrio delle forze in parlamento, caratterizzato da due partiti di poco sopra il 20% e due attorno al 15%. Il reciproco neutralizzarsi delle forze politiche darebbe spazio alla mediazione del Presidente della Repubblica appena rieletto e a qualcuno questa può apparire la condizione ideale per confermare Mario Draghi alla guida del governo e per garantire anche la presenza di gruppi politici minori, ma capaci di svolgere un ruolo risolutivo come è stato per Italia Viva di Matteo Renzi.

Non convince però l’opzione a favore del proporzionale come garanzia di continuità delle condizioni che hanno portato Mario Draghi alla Presidenza del consiglio per iniziativa del Presidente della Repubblica Mattarella. Questo fatto, certamente positivo per affrontare l’emergenza economica e sanitaria tuttora in atto, oltre alla critica situazione internazionale dovuta alla invasione della Ucraina, aggraverebbe lo stato di salute già precario del nostro sistema politico, nonché la sua credibilità complessiva, quella dei partiti stessi e della loro relazione con i cittadini elettori.

Sempre che non si voglia sostenere che, per evitare la vittoria del centro destra, si debba fare tutto il possibile, non tanto sul terreno programmatico e della cultura politica (per favorire l’affermazione di una proposta capace di parlare a larga parte dell’elettorato), ma facendo passare una legge elettorale in grado di sacrificare al ritorno di Draghi la formazione di maggioranze omogenee e stabili. In un contesto proporzionale, infatti, le uniche alleanze possibili sarebbero quelle tra partiti che in campagna elettorale si sono contrapposti, magari anche avanzando proposte tra loro contraddittorie o difficilmente compatibili. Ciò a cui, del resto, stiamo già assistendo, dovendo quasi quotidianamente registrare le difficoltà che Draghi è costretto ad affrontare per tenere insieme la sua maggioranza.

Bisogna tuttavia riconoscere che i sistemi in grado di assicurare un’effettiva “governabilità”, capace anche di recuperare la fiducia degli elettori, potrebbero essere soltanto quelli in grado di produrre importanti effetti maggioritari. E di ricorrere ai collegi uninominali, al fine di favorire la selezione di candidature dotate di un profilo sufficientemente credibile agli occhi dei cittadini. Vogliamo, viceversa, adattarci a una soluzione proporzionale, con la sola (benché importante) aspettativa che questa, producendo il nulla di fatto, possa permettere un ritorno di Draghi come “salvatore della patria” a Palazzo Chigi? E quali certezze potremmo avere circa il fatto che tale ritorno possa avvalersi delle necessarie condizioni politiche per imprimere alla guida del paese quella definitiva svolta riformista di cui ha bisogno?

2- La seconda osservazione concerne la “rappresentatività”, argomento in nome del quale si sono sempre bloccati i vari tentativi di realizzare un vero maggioritario (sino alla farsa dell’attuale legge Rosato), sostenendo che il maggioritario sacrifica esageratamente la funzione rappresentativa dei partiti, a cominciare da quelli più piccoli.

Attribuire alla “rappresentatività” maggiore importanza rispetto alla “governabilità” è peraltro una conseguenza negativa proprio di quella polarizzazione ideologica di cui si diceva. Là dove le distanze programmatiche e valoriali che separano i maggiori partiti (ma anche la maggior parte di quelli minori, come si verifica in Germania) non sono così ampie, il proporzionale ha sicuramente poco impatto sulla reale “rappresentatività”, grazie anche alla presenza di una reale soglia di sbarramento (oltre alla sfiducia costruttiva), assicurando comunque la “governabilità”.

Il doppio turno in collegi uninominali risolverebbe alla radice questo problema. E anche se per una maggiore coerenza istituzionale bisognerebbe introdurre l’elezione del Presidente della Repubblica, con un intervento di revisione costituzionale allo stato attuale assai improbabile, nulla vieta di ragionare su un maggioritario a doppio turno per l’elezione dell’assemblea legislativa senza dover necessariamente modificare la forma di governo. In questo caso, però, sarebbe auspicabile quanto meno rivalutare il dibattito sul rapporto tra leadership e premiership, tema che nel dibattito politico italiano è ormai diventato un vero e proprio “tabù”, sebbene in molti sistemi politici europei costituisca di fatto una prassi consolidata, comportando anche una riflessione che nessuno sembra intenzionato a fare sulle forme organizzative della rappresentanza (partiti) più appropriate per la realizzazione di un efficace modello di governo. Un dibattito che in Italia non ha più avuto ulteriori sviluppi dopo l’introduzione delle primarie da parte del PD e del centro sinistra.

3- Terza osservazione: la sfiducia nella politica deriva dal “non sentirsi rappresentati” o dal “non sentirsi governati”?

L’attuale forte scontento dell’elettorato (testimoniato anche dal fenomeno dell’astensione, comunque superiore a livello nazionale e minore a livello dei Sindaci) per noi non è da imputare solo alla sensazione di essere scarsamente rappresentati, o alla scarsa possibilità di influire concretamente sulla scelta degli eletti, ma alla sostanziale inefficacia del modello di governo. Del resto, la rappresentanza ha senso nel momento in cui, sul piano istituzionale, si traduce in un’efficace azione di governo. Altrimenti rischia di essere fine a se stessa, e così produrre ulteriore disaffezione nei confronti della politica.

Almeno in parte, anche l’affermazione dilagante del populismo è dovuta a questo. Non è pensabile che il ritorno al proporzionale possa far tornare la fiducia nella politica. Il problema di fondo rimane quello dell’efficacia e della responsabilità nell’esercizio della funzione di governo, tanto più che abbiamo una P. A. cronicamente incapace di implementare con un minimo di efficienza (ed efficacia) quel “poco” che qualsiasi governo decidesse di attuare. Per fare vere riforme istituzionali occorrono governi che governano, sufficientemente stabili e coesi, così che gli elettori possano attribuire chiaramente meriti e demeriti in base ai risultati ottenuti e possano esprimere il proprio voto in base a queste considerazioni.

4- Quarta e ultima osservazione: molti, giunti a questo punto, diranno che rilanciare oggi il maggioritario significa avanzare una proposta esclusivamente per distinguersi, segnare il campo, in una prospettiva meramente identitaria. Adducendo fra le altre motivazioni il fatto che, nelle condizioni date, il centro-destra non avrebbe comunque interesse a modificare l’attuale legge elettorale. Questo forse è vero, ma vale anche per un ritorno al proporzionale puro (come sembra riconoscere Michele Salvati).

Siamo allora di fronte al classico “Che fare?”, perché in ogni caso non vi sarebbe una maggioranza disposta a ridiscutere la legge elettorale, quale che sia. In realtà non abbiamo, dunque, solo il “totem” del maggioritario; anche la legge proporzionale diventa un “totem”, con in più tutti i gravi difetti che si dicevano. E allora perché perdere un tratto distintivo e qualificante in una scommessa comunque perdente? E perché rinunciare aprioristicamente ad alimentare un dibattito politico che abbia come principale obiettivo l’individuazione delle condizioni più favorevoli a riconsegnare il primato della scelta di governo ai cittadini?

Una postilla. La “governabilità” è nell’interesse di tutti i partiti, sia di quelli si definiscono “riformisti” sia di quelli di centrodestra.

Ci siamo così tanto abituati ai “governicchi” che nessuno si chiede più per quale ragione negli ultimi anni abbiamo avuto prima un governo giallo-verde e nel giro di neanche due anni un governo giallo-rosso. Dopo di che si è dovuti ricorre al “super partes” Draghi perché i 5S si stavano sciogliendo come neve al sole. Se si deve fare una battaglia politica in nome di un’idea di democrazia, meglio farla nel nome del maggioritario e non nel nome del proporzionale.

Si potrebbe così aprire una discussione seria nel paese e anche in Parlamento. Questo permetterebbe (tanto più se fatto anche nelle sedi opportune) di provare a far ragionare i partiti di centro destra, visto che, quando si sono trovati a governare, anche loro sono riusciti a combinare ben poco. Peraltro, il riconoscimento reciproco tra maggioranza e opposizione è una condizione essenziale per una democrazia realmente funzionante.

Se si riflette con calma, ripetiamo, la “governabilità” è un problema serio per tutti, indipendentemente dalle bandiere che si sventolano. Il maggioritario è nell’interesse di tutti, a partire dai cittadini. Tutti potrebbero ben comprendere che le spese che verranno stanziate (anche in una prospettiva europea) dovranno essere utilizzate bene, cosa che soltanto un governo stabile e coeso potrebbe fare in maniera efficace. Se in tal caso non è detto che gli Hobbit (apatici e disinformati) potrebbero trasformarsi in Vulcaniani (razionali e informati, riprendendo la tipologia di Brennan), è però probabile che, soprattutto per le estreme preoccu­pazioni causate dall’invasione dell’Ucraina e le stragi di civili inermi, gli Hooligans rimarrebbero una piccola minoranza con scarsa presa sia sui partiti sia sugli elettori.

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