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La riforma istituzionale è la condizione di ogni riforma possibile

Giovanni Cominelli martedì 10 Agosto 2021
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di Giovanni Cominelli

 

Ultimo in ordine di tempo è stato il Manifesto, pubblicato dal quotidiano “Il Riformista”, a firma di diciassette intellettual-politici, intitolato “Sedici tesi sul riformismo”. Per citarne i firmatari politici: Fabrizio Cicchitto, Bobo Craxi, Biagio de Giovanni, Riccardo Nencini, Bruno Pellegrino, Claudio Petruccioli, Umberto Ranieri, Claudio Signorile… Si tratta di personalità della sinistra già comunista e socialista.

A febbraio era stato lanciato da e sul giornale on line LINKIESTA un Appello intitolato “Alleanza per la Repubblica contro il bipopulismo perfetto”  con alcune decine di firme. Dietro ai Manifesti e agli Appelli, firmati dai singoli, esistono delle sigle di partiti e di movimenti, più o meno solidi, quali Italia Viva, Azione, Più Europa, Libertà Eguale che si autocollocano nella scia politico-intellettuale del riformismo. E poi Circoli e Club… Eppure tutti questi rivoli di riformismo non riescono confluire in un fiume impetuoso, capace di far saltare gli argini del conservatorismo politico-istituzionale trasversale di destra e di sinistra, molle come caucciù e perciò resistente più della pietra. E’ questo il tormento di tutte le anime riformiste del Paese. Perché le riforme, se e quando arrivano, arrivano tardi, a volte di decenni, come quella della giustizia penale, o sempre sfiancate, come quelle della scuola. Ma per lo più non arrivano proprio, come quella del fisco o del sistema politico-istituzionale. E perciò le animule vagulae blandulae del riformismo tendono alla malinconia e alla lamentela permanente: viviamo nel Paese del nostro scontento! In altri tempi, all’impotenza dei riformisti si sarebbe contrapposta la potente alternativa rivoluzionaria. C’era pur sempre un faro a Est, anzi due. Ma quello di Mosca si è spento ingloriosamente, quello di Pechino è un laser aggressivo e pericoloso. E così, da decenni, la politica italiana oscilla tra momentanee emergenze/unità nazionali e bonacce del mar delle Antille. Abbandonate le discussioni astratte tra riformismo, massimalismo, rivoluzione, i riformisti si affannano ad assediare la Gerico conservatrice, girando intorno alle mura con le bandiere delle loro soluzioni concrete dei problemi concreti. E’ questa infatti una caratteristica dirimente del riformismo: su giustizia, fisco, scuola, sviluppo, lavoro, istituzioni…  entrano nel merito preciso delle questioni e fanno proposte.

Ma ai piedi dei riformisti, benché più ostinati di Giosuè, le mura di Gerico non cadono. Per di più, a loro tocca lo scherno scettico dei prudenti e dei saggi: di quelli che dicono che bisogna evitare le fughe in avanti, di quelli della concretezza andreottiana, di quelli del fatalismo italico. Da quando è comparso Draghi all’orizzonte, ultima reincarnazione visibile del Podestà esterno, l’area riformista del Paese lo ha sostenuto con entusiasmo. Le riforme che finora non si è riusciti ad ottenere per via della normale dialettica democratica destra/sinistra o governo/opposizione, pare ora che si possa realizzarle in tempi straordinariamente veloci. La pressione della situazione internazionale sulla politica interna, cioè le conseguenze oggettive della collocazione dell’Italia in Europa, l’interdipendenza dei destini dei Paesi, il rischio concreto di finire ai margini economici dello scacchiere europeo e mondiale hanno momentaneamente convinto i partiti a rinverdire la formula dell’emergenza e dell’unità nazionale o, se si preferisce, quella dei governi monocolore di decantazione. Ma con ciò non siamo usciti dal regno dell’instabile e del provvisorio. Intanto, il 3 agosto, è incominciato il cosiddetto “semestre bianco”, nel corso del quale, a norma discutibile di Costituzione, il Presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere. E’, perciò, un entusiasmo trepidante quello dei riformisti. I partiti possono agire all’impazzata: fare cadere il governo, tanto per incominciare, o dedicarsi alle manovre più folli. Sei mesi di ricreazione, dedicati non al governo del Paese, ma a tessere grandi manovre per l’elezione del Presidente della repubblica. Dal nuovo Presidente, infatti, dipende la conferma del Presidente del Consiglio. Ci sono partiti o pezzi di partiti che vorrebbero mandare a casa Draghi e/o che vorrebbero andare a elezioni per definire nuovi rapporti di forza.

Come uscire dall’instabilità nervosa e permanente della politica? Giacché è questa la causa immediata dell’impotenza dei riformisti.

All’origine di tutta la storia sta la collocazione internazionale subalterna dell’Italia, dopo la seconda guerra mondiale. Tenuta sotto controllo dagli Usa, per quanto riguarda le relazioni geopolitiche mondiali, da Gran Bretagna e Francia per quanto riguarda lo scacchiere mediterraneo, la politica italiana ha praticato la dipendenza. Il tentativo di Enrico Mattei di spezzarla nel fondamentale settore energetico ha avuto successo, però pagato con la vita, a perenne monito.

La collocazione internazionale dipendente – quella degli sconfitti – ha generato un assetto istituzionale, per il quale la politica democratica è stata a lungo bloccata e oggi é indecisa a tutto. I partiti del 1943-48 l’hanno voluta così. Questo assetto istituzionale, così come la Costituzione oggi prevede, ha forgiato, a sua volta, i partiti in modo nuovo rispetto al 1943-48. I nomi sono rimasti gli stessi per decenni, ma la collocazione dei partiti è cambiata rispetto alla società e allo Stato: partiti di potere e di s/governo. Il tentativo di Moro di aprire la strada ad una riforma del sistema politico per costruire una democrazia governante/decidente, modificando quello ereditato/imposto dalla collocazione internazionale dell’Italia, è finito nel sangue.

La politica dipendente ha forgiato la domanda politica dei cittadini-elettori rivolta ai partiti e l’offerta dei partiti. Per un verso gli elettori chiedono ai partiti ”governo”, per un altro chiedono “potere”. Quando chiedono “governo”, si pongono dal punto di vista degli interessi del Paese, dentro l’Europa e il mondo. Quando chiedono “potere”, si pongono dal punto di vista dei propri interessi particolari.

La politica italiana ha introiettato la dipendenza. Perciò ha perduto la consapevolezza delle sfide di governo poste dalla collocazione e dalla missione del Paese, dentro uno schema di competizione/collaborazione, nel quale nessun Paese regala graziosamente nulla a nessun altro. La politica non è “governo”, è gestione del “potere”. Governati da altri, amministriamo in proprio solo il potere.

Il “governo” richiede responsabilità, scelte ragionevoli, sacrificare, talora, fasce di consenso. Al “potere”, viceversa, basta occupare apparati pubblici, enti economici, banche, ministeri, società partecipate, distribuendo a ciascuno prebende e incarichi, in cambio di voti… Il potere è comodo, il governo è faticoso.

Il riformismo non può mettere radici nel terreno paludoso della politica attuale. Non si mette in movimento nulla se la struttura istituzionale della politica è e resta gravemente deformata. La riforma istituzionale della politica è la condizione di possibilità di ogni altra riforma e perciò dell’affermarsi di un movimento politico riformatore. Non si tratta di uno dei punti, ancorché fosse il primo, della tavola riformista. E’ la materia costituente la tavola. E il punto dei punti. Finché i riformisti non lo prenderanno sul serio, potranno anche elaborare mille preziosi progetti di riforme particolari. Ma resteranno solo vuoti conati.

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