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La traversata nel deserto della sinistra di governo

Danilo Di Matteo lunedì 7 Novembre 2022
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di Danilo Di Matteo

 

Parole sagge, quelle del professor Sergio Fabbrini.

Essere, sentirsi una forza di governo non significa necessariamente svolgere funzioni di governo, esprimere ministri. Vuol dire piuttosto anche fare opposizione e avanzare proposte alternative rispetto alla linea della maggioranza e dell’esecutivo come se si facesse parte del governo: proposte di governo, appunto. Non demagogiche, non propagandistiche. Tenendo sempre conto delle compatibilità, come il grande Luciano Lama insegnò al sindacato e alla sinistra. Esser dentro un orizzonte, una visione di governo e di responsabilità, dunque.

Per il resto una fase di opposizione, vissuta in tale prospettiva, può esser molto salutare per il centrosinistra, concordo appieno con Fabbrini. E può aiutare a risolvere i nodi irrisolti della sinistra di governo. A proposito di Massimo D’Alema e del 1998, forse con un pizzico di supponenza proverei addirittura a rendere esplicito un passaggio concettuale. Gli eredi del Pci non avrebbero dovuto considerare compiuto il lavoro di elaborazione del proprio passato solo sulla base del fatto, pur fondamentale, che il Pci avesse contribuito in maniera determinante alla Resistenza e alla stesura della Carta costituzionale o, poniamo, alla sconfitta del terrorismo. E, più in generale, in virtù della sua collocazione nell’arco costituzionale. Né bastava il passaggio della Bolognina, conseguente al venir meno della “cortina di ferro”. Occorreva riconoscere il senso di un errore e di un fallimento, e da lì ripartire. Va da sé che proprio la capacità di compiere tale riconoscimento e di farvi davvero i conti sarebbe stata lì a dimostrare che, in quella vicenda, erano stati gettati tanti, tantissimi semi buoni. Già ho avuto occasione di dire, insomma, che quella del Pci non sia stata la storia di un errore. L’errore si situava nel legame con il comunismo sovietico e internazionale, a dispetto di strappi e tentativi di emancipazione.

Fabbrini, poi, indica mirabilmente la strada: un grande soggetto riformista si fa carico sia di una strategia volta alla crescita sia delle istanze di giustizia sociale. Non vi può essere una “divisione dei compiti”; occorrono piuttosto una linea e un progetto unitario e coerente di sviluppo sostenibile e di inclusione e partecipazione diffusa al benessere.

Qui giunti, sento di continuare con una postilla. Non dispongo delle conoscenze specifiche e delle capacità di analisi del politologo; mi muovo con l’intuito dell’osservatore appassionato. Compiere i passaggi indicati dallo studioso potrebbe non bastare. È quasi proverbiale dire che il nostro assetto politico presenta le maggiori analogie, pur con tutte le profonde differenze, con quello dei cugini d’oltralpe. Ebbene: il Partito socialista francese, (ri)fondato a Épinay da leader come Mitterrand e arricchito dal contributo di cristiano-sociali come Delors, è ormai (quasi) scomparso di scena. E che dire dei laburisti israeliani, veri e propri padri della patria?

Qualche amico, leggendo queste mie note, mi rimprovera benevolmente di peccare di ottimismo. Ora, tuttavia, mi sento di evidenziare che, per il Pd e per la sinistra riformista, il percorso sia irto di difficoltà.

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