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L’autonomia differenziata e le furbizie di Calderoli

Giovanni Cominelli domenica 4 Dicembre 2022
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di Giovanni Cominelli

Che cosa ha spinto il Sen. Roberto Calderoli, Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, a riaprire il libro dell’“autonomia differenziata” delle Regioni?
Le motivazioni cogenti per occuparsi seriamente delle Regioni non mancherebbero.
La frattura economico-sociale tra Nord e Sud si sta allargando – leggere, per credere, il recente Rapporto Svimez 2022 –  le Regioni, in particolare  quelle meridionali, non sono riuscite a mostrarsi utili e necessarie ai fini dell’unità socio-economica del Paese.
Servirebbe dunque una volontà nazionale di riforma costituzionale, già altre volte invocata da queste pagine, che si proponesse un dimezzamento del numero delle Regioni, una ridistribuzione dei poteri tra Stato centrale e Regioni, a partire dalla responsabilità fiscale, e un rafforzamento dell’istituzione-governo, per impedire la frantumazione. In due parole: presidenzialismo e federalismo. Dopo il sostanziale fallimento del Nuovo Titolo V del 2001, dopo i referendum sull’autonomia della Lombardia e del Veneto del 22 ottobre 2017, dopo la Commissione di studio sull’autonomia differenziata, istituita da Mariastella Gelmini con Decreto del 3 dicembre 2019, ci si aspettava dal nuovo governo un progetto forte. Non pare che sia tale il Progetto di legge Calderoli, da lui stesso peraltro subitamente derubricato ad “appunti per il dibattito”, con understatement sospetto.
Il fatto è che alle spalle di Calderoli premono motivazioni assai meno storico-epocali. Sta l’esigenza esistenziale della Lega di Salvini di differenziarsi dagli alleati e di segnare il territorio con gesti simbolico-identitari: prima via-immigrati e ora via-autonomia differenziata.

Che cos’è l’autonomia differenziata nel PdL di Calderoli?
Esso si propone di attuare l’Art. 116 della Costituzione, comma 3, che afferma che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia … possono essere attribuite a altre Regioni (NdR. oltre a quelle a Statuto speciale) con legge dello Stato su iniziativa della Regione interessata”. Ora, in base al Nuovo Titolo V, ci sono ben 23 materie “di legislazione concorrente”, che una Regione può pensare di gestire. Il lungo elenco delle materie opzionabili è allegato al PdL Calderoli, non lo riprendiamo qui.
Ma che succede se, grazie alla gestione regionale differenziata di certe materie, le Regioni del Nord trattassero meglio i propri cittadini di quelle del Sud e quindi si profilasse una disparità?
Niente paura, “arrivano i nostri”, cioè i LEP – Livelli essenziali di Prestazione – di Stato, attraverso i quali le Regioni negligenti sono “costrette” a migliorare le proprie prestazioni in sanità, assistenza, istruzione…   “I nostri” si annunciano da anni, ma non arrivano mai, perché ogni volta che le Regioni sono state riunite attorno ad un tavolo per concordare i famosi livelli, è incominciato il “tira e molla”: le Regioni del Sud li vogliono bassi, le Regioni del Nord li vogliono alla propria altezza. E qui il tavolo si svuota, alla chetichella. Le Regioni del Sud fanno resistenza, essendo colpevolmente incapaci di garantire un trattamento decente ai propri cittadini. E accusano lo Stato. Ma non mancano le risorse statali, manca la capacità di far funzionare le Amministrazioni – statale, regionale, comunale – e di spendere i soldi, per colpe gravi della classe politica e per mentalità clientelare di chi la vota. Esiste una corrispondenza biunivoca evidente tra la bassa qualità della società civile meridionale e quella della sua classe dirigente, intellettuale e politica. Il dramma di Ischia  – 3 milioni di Euro stanziati 12 anni fa dal Ministero dell’Ambiente e mai spesi! – è l’ultima controprova della complicità tra cattiva società civile e cattiva politica, alleate nel peggio e poi lamentose verso lo Stato: “Ci hanno lasciato soli!”.

A questo punto, Calderoli sterza con una furbata, anzi con due.
La prima: i LEP dovranno essere varati dal Governo con decreto della presidenza del Consiglio entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge che assegna le competenze, sulla base di accordi bilaterali. E se non si riesce a mettersi d’accordo entro un anno? Si procede comunque a delegare le materie. E i soldi, che devono accompagnare le deleghe? Si danno comunque, sulla base della spesa storica sostenuta dallo Stato nella Regione per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti. Insomma: prima arrivano le deleghe e i soldi, poi, forse, i LEP. L’ipotesi del rinvio dei LEP nasce da una constatazione realistica: che i partiti nazionali, tanto di governo quanto di opposizione, a Roma hanno una parola, nelle Regioni ne hanno un’altra. A Roma dichiarano solennemente di volere i LEP; ma nelle Regioni del Centro-sud gli stessi vogliono LEP bassi, cioè non li vogliono!. Quindi si apprestano a menare il can per l’aia.
Di qui una seconda conseguente “furbata”: siglare gli accordi direttamente tra Governo e Regioni, by-passando il Parlamento, proprio perché controllato da partiti schizofrenici. Teme, non a torto, che l’intera storia finisca nel pantano.

Si profila così lo scenario del “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”: le Regioni del Nord, grazie a nuove  deleghe, potranno continuare a migliorare le proprie prestazioni, mentre le Regioni del Sud manterranno, nell’ipotesi migliore, il loro non brillante status quo, aumentando in tal modo la distanza dal Nord.
Il punto cruciale è sempre lo stesso: se in una Regione del Nord lo Stato gestisce direttamente dei servizi, la società civile e la politica della Regione pretendono/ottengono dall’Amministrazione statale performance di qualità. E se lo Stato offre prestazioni basse, la Regione rivendica la delega, qualora costituzionalmente possibile. Non così accade al Sud, perché le pretese civili della società sono basse e così quelle della politica che la rappresenta. E’ più comodo ospitare l’Amministrazione statale sul proprio territorio e farne, all’occorrenza, una controparte sindacale e, comunque, un ufficiale pagatore a piè di lista.
Si tratta di un regionalismo irresponsabile: non raccogliendo i soldi attraverso la fiscalità regionale, si limita a rivendicare allegramente quelli raccolti dallo Stato su tutto il territorio nazionale. Donde la giustificata ribellione del Nord.

Ci sarebbe una via d’uscita: quella del federalismo fiscale che rendesse i soggetti di spesa (Comuni,  Regioni, Stato) responsabili del prelievo fiscale, cioè delle entrate. E se una Regione non ha abbastanza base imponibile? Intanto, occorre allargarla, diminuendo il numero delle Regioni. E poi facendo scattare il meccanismo del federalismo solidale, che già funziona ottimamente in Germania. Ha un difetto agli occhi delle Regioni del Sud: che costringe la società civile e la politica meridionale ad assumersi responsabilità, scoraggia la spesa allegra e la conquista del consenso con i soldi degli altri.
Ma, realisticamente, pare difficile che il ceto politico redistributivo ed estrattivo, generato e moltiplicato dal regionalismo debole della Prima repubblica, voglia percorrere la strada del suicidio. Perciò la scorciatoia che Calderoli tenta di imboccare lo porterà verso il nulla.
Il Sud è un grande giacimento di risorse per il Paese. Ma l’attuale tessuto istituzionale ne rende impossibile l’utilizzo e ne favorisce lo sperpero.

 

Editoriale da santalessandro.org, sabato 3 dicembre 2022

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