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Il monopolio di Facebook fa male alla democrazia

Antonio Preiti mercoledì 19 Giugno 2019
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di Antonio Preiti

 

Facebook ha chiuso qualche giorno fa 23 pagine che incitavano all’odio e alla diffusione di notizie false. La sensazione, prima vaga e poi sempre più convincente, è però che il problema, alla fine, sia proprio Facebook in sé, e non (solo) la patologia delle fake news.

Lo conferma anche l’apertura della procedura anti-trust del Governo americano che vuole vedere meglio il suo monopolio di fatto.

La convinzione è che il dibattito pubblico sia fortemente influenzato da un soggetto totalmente autoreferente, tanto che il punto non è quello che Facebook fa, che già è molto, ma quello che ha il potere di fare, che è immenso (la parola non è esagerata, e lo si vedrà tra poco).

 

La centralità dei social in campagna elettorale

Un sintomo diretto lo si vede da come è stata condotta questa campagna elettorale. I social sono il terreno dove lo scontro politico è più intenso, tanto che televisioni e giornali sembrano più il riverbero dei social che viceversa. È difficile stabilire il livello in cui uno influenza l’altro, ma la sensazione è proprio quella.

C’è qualcosa di politicamente più espressivo, per esempio, di due foto accostate, dove nella prima si vede uno striscione su un balcone e nella seconda i vigili su una gru che lo tolgono? E proprio il fatto che le immagini siano più potenti delle parole aggiunge un altro tassello al cambiamento, confermato, per altro, dalla nuova versione di Repubblica, che gira intorno all’immagine preponderante della prima pagina. Ultimo mattone nel muro dei nuovi codici di comunicazione.

 

Politica: pochi la seguono..

Vediamo però alcuni fatti più strutturali. Le indagini Istat ci dicono che le persone che seguono con costanza la politica rappresentano il 7,5 % della popolazione. Si tratta, plausibilmente, di persone che della politica hanno molte informazioni, si sono fatti un loro metro di giudizio e hanno un “track record” della successione dei fatti e delle opinioni. La stessa indagine ci indica che il 34,6 % degli Italiani non ha nessuna informazione politica, nel senso che non la vuole avere, non la segue per nulla.

Se a questi aggiungiamo quelli che della politica se ne curano occasionalmente, e che rappresentano il 30,6 %, arriviamo alla significativa quota del 65,2 % della popolazione che sostanzialmente non si occupa di politica.

Confrontiamo questi dati con altri riferiti al mondo digitale: il 15,0 % degli Italiani esprime ogni giorno opinioni sulle questioni politiche sui social media, è il doppio di quelli che seguono correntemente la politica. La percentuale è comunque compatibile con la parte di persone che segue la politica anche se non in maniera sistematica.

 

… ma tutti sono esposti l’influenza dei social media

Il punto è un altro: il 41,6 % della popolazione è comunque raggiunto dall’informazione politico-sociale proprio su internet e specialmente dentro i social media. Ricapitoliamo: pochi seguono costantemente la politica; in una misura doppia comunque esprimono un’opinione politica (o meglio un’opinione sui fatti politici) e un numero ancora maggiore, pur non seguendo (o non volendo seguire) la politica, è esposto all’informazione socio-politica perché intessuta nel flusso di informazione che riceve dai social media.

Dov’è la parte preoccupante? Su questo aspetto guardiamo agli Stati Uniti, dove hanno già sperimentato un’elezione presidenziale in cui l’influenza dei social media (se non illegale, certo non trasparente) ha addirittura meritato un’inchiesta al più alto livello istituzionale.

Ha molto colpito in quel Paese la proposta di Chris Hughes, uno dei co-fondatori di Facebook, lanciata sul New York Times del 9 maggio di frammentare (“break up”) Facebook, come fatto in passato per le aziende monopoliste dell’elettricità, in quanto il suo potere è esorbitante, monopolista, e riduce la qualità della democrazia americana.

 

Il dibattito pubblico condizionato dagli algoritmi

Hughes, le cui tesi sono state condivise dal NYT con un editoriale, sostiene che l’influenza di Facebook non ha eguali nel settore privato e supera persino quella dello stesso governo americano; questo perché combinando la sua rete con quella di Whatsapp e di Instagram (entrambe di sua proprietà) è capace di determinare, attraverso i suoi algoritmi, “chi vede che cosa”. Vale a dire che il dibattito pubblico, che oggi si svolge prevalentemente, o con maggiore tempo dedicato, è ampiamente influenzato dal flusso delle “News feed” di Facebook.

Aggiunge Hughes che proprio questo flusso incessante di informazioni, scolpito con l’esattezza degli algoritmi (che sono decisi in pieno e assoluto potere da parte di Facebook), cambia la nostra cultura, influenza le elezioni e seleziona cosa è importante sapere e cosa no. Naturalmente non si tratta di un progetto preordinato da una mente ingannevole, ma è la “unintended consequence”, cioè la conseguenza non intenzionale dello strumento stesso. Nella storia del mondo non c’è stato mai nessun soggetto in grado di monitorare, organizzare e talvolta censurare le conversazioni di due miliardi di persone.

È così pervasivo e influente lo strumento, che nei recenti attentati in Sri-Lanka Facebook è stato chiuso per evitare che l’odio dilagasse e coinvolgesse tutto il Paese. Nel 2017 lo stesso Zuckerberg ha dichiarato di aver personalmente cancellato messaggi di odio tra musulmani e buddisti per l’evidente ragione che avrebbero portato a scontri tra i due gruppi religiosi. Ha fatto benissimo, naturalmente, ma chi al mondo ha un potere analogo?

 

Un modello di business basato sull’attenzione…

La chiave di tutto è il modello di business di Facebook, così come degli altri grandi player del digitale, cioè catturare l’attenzione degli utenti. La guerra, leggera e feroce, che si combatte fra social media, televisione, giornali, libri e che coinvolge l’intera vita privata e professionale, è proprio sul tempo, su chi riesce a trattenere di più l’utente sul suo media.

Oggi l’utente medio di Facebook, aggiungendo Instagram, passa oltre un’ora sulla piattaforma: una quantità immensa per un solo attore. Infatti, per superare l’ora media di attenzione dovremmo mettere sull’altro piatto della bilancia tutta la televisione nel suo complesso, perché nessuna singola trasmissione tiene incollata la gente tutti i giorni per almeno un’ora in una percentuale di popolazione così elevata.

 

… in cui il pregiudizio vince sempre sul giudizio

Se l’obiettivo è tenere desta l’attenzione degli utenti (la meravigliosa e terribile curiosità di sapere cosa viene dopo: l’immagine successiva, il post successivo) funziona perfettamente quanto teorizzato e dimostrato da Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia e studioso dell’influenza della psicologia nelle decisioni umane, secondo cui il pensiero veloce/istintivo vince su quello lento/razionale (perciò vince la foto sulle parole; il titolo sul contenuto; la frase ad effetto sul argomento) e, nel nostro caso, vince il pregiudizio sul giudizio, cioè quelli che tecnicamente sono i “bias” (le inclinazioni, i preconcetti e appunto i pregiudizi) su una visione ponderata, soppesata e riflessiva della realtà.

Se voglio i “click” devo puntare sui pensieri veloci e sui “bias” più consolidati, perché sono quelli che garantiscono una maggiore reazione e una più grande condivisione. Insomma è nel funzionamento intimo del modello che si incunea la patologia delle fake news.

 

Dei flussi di informazione che vanno regolamentati

In questo quadro si inserisce anche un problema giuridico/politico non da poco, soprattutto nel periodo elettorale: nel mentre le affissioni dei manifesti sono iper-regolate (numero di caselle a disposizione per lista); le trasmissioni televisive sono misurate secondo per secondo (par condicio); i messaggi pubblicitari televisivi politici sono addirittura vietati; c’è il flusso più importante e più influente di informazione (che include anche la pubblicità politica!) che non ha alcuna regolazione.

Non la prova che sia intenzionalmente distorsivo, ma la semplice possibilità che possa esserlo, e la certezza che in qualche caso lo è stato, dovrebbe portare a una discussione su come regolamentare questa materia.

Dentro Facebook c’è la vita privata diventata pubblica, ma come si combina, s’intreccia e crea gerarchie di argomenti, sentimenti e valori, non lo decidiamo noi.

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1 Commenti

  1. PAOLO FERIOLI mercoledì 19 Giugno 2019

    Articolo interessante perché sottolinea la pericolosità sociale del mezzo in sè così come è strutturato senza doverosi paletti e limiti alla diffusione.
    Ora però si aggiunge l’intenzione di creare una criptomoneta collegata a Facebook e altri social media. Questo rappresenta, mi sembra, un pericolo ancor maggiore che rischia di trasformare questa rete in un ente globale al di sopra dei governi.

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