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Pci, appunti sull’interminabile addio raccontato da Petruccioli

Giovanni Cominelli sabato 12 Dicembre 2020
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di Giovanni Cominelli

 

Il libro di Petruccioli è felicemente una specie di continuazione della politica con altri mezzi. L’ho letto come il diario di un’eroica sconfitta e come il racconto di un lungo, interminabile addio, non personale di Claudio Petruccioli, ma delle forze che hanno ereditato il PCI, quelle confluite da sinistra nel PD. Petruccioli ricorda, nel suo racconto, una motivazione per il suo sostegno alla svolta, che anch’io all’epoca ho condiviso, e che lui espose davanti al sacro sinedrio del gruppo dirigente del PCI: la svolta di doveva fare, perché il PCI era ormai comunista solo di nome, ma era socialdemocratico di fatto. Poi si è accorto – ed è l’oggetto della titolazione del suo POST SCRIPTUM del 2020: “Quanto è difficile uscire dal PCI!”, a integrazione della riedizione del RENDICONTO pubblicato nel 2001 – che si trattava di un’illusione. Che anch’io, appunto, ho condiviso, allorché, finita l’esperienza della sinistra extraparlamentare, mi posi il problema se tornare in Università o continuare a fare politica. Avendo scelto di continuare, avevo davanti un bivio: PCI o PSI? La cultura politica del PSI in quegli anni – 1981-82 – mi attirava molto di più della cultura politica del PCI, ma la linea politica del PSI mi piaceva meno. D’altronde il PCI sta diventando socialdemocratico – ecco l’illusione! – così decisi di entrare nel PCI,  aderendo alla  corrente dei miglioristi. Una volta dentro il partito, mi sono presto reso conto che il PCI era molto più comunista di quanto pensassi, a tal punto che, ancora adesso, pezzi fondamentali della cultura politica  di quel partito continuano a vivere ancora dentro il PD.

Il libro da questo punto di vista mi è sembrato interessante, perché cerca di dare una risposta alla domanda su che cosa impedisca ai resti di chi viene dal PCI, dalla DC, dalla generazione ormai non più tanto giovane che viene dalla Rete, da Mani Pulite, dai Girotondi, dalla sinistra che poi è finita nei Cinquestelle, dalle Sardine… che cosa impedisca a tutti costoro di costruire una sinistra liberale in Italia, che sia in grado di rappresentare un’alternativa sia alla destra liberale conservatrice sia alla destra illiberale.

Ho letto a suo tempo RENDICONTO del 2001 e perciò non mi ci soffermo. Mi aveva colpito molto. Ancora di più mi colpisce il POST SCRIPTUM di questa febbraio 2020. In questa appendice alla vecchia edizione, Petruccioli propone due grosse chiavi interpretative, due categorie decisive per comprendere la  cultura politica del PCI: quella della doppiezza e quella dell’ipocrisia. Esse servono per comprendere le ascendenze dei tic ideologici del PD, che hanno a che fare fortemente con quel lascito. Quelle categorie continuano a funzionare nei post-comunisti.

Certo il leninismo non è più quello esplicitamente proclamato da Gramsci, Togliatti e Berlinguer, che lo ha difeso fino all’ultimo. Ma resta un nocciolo leninista, che è questo: intanto una filosofia della storia che prevede un progresso infinito e fatale verso un’umanità nuova e un uomo nuovo. Poi, un’idea di etica pubblica, per la quale è etico chi sta dentro questa corrente della storia. Il Verum et Bonum consistono nello stare dalla parte giusta della storia e nel camminare a fianco, o appena dietro o appena di lato dell’Assoluto, che è il nocciolo della storia umana. Ovviamente gli intellettuali di oggi nel PD, supposto che ne disponga, non propongono più esplicitamente una tale visione. Ma nella mentalità dei militanti resta l’idea di stare dalla parte giusta e di essere detentori di una morale superiore. Si può notare ancora adesso nei dibattiti che se pronunci un nome quale Craxi o Berlusconi o Meloni o Salvini, prima ancora che si accenda una discussione critica sulle politiche che hanno sostenuto o sostengono, appare una reazione morale, uno sdegno etico. Riemerge l’idea, che il PCI ha sempre alimentato nei militanti, di stare un gradino sopra. Conseguenza di questo atteggiamento, è collocarsi dalla parte giusta della storia non è di tutti. Non tutti hanno questo accesso al nucleo ardente della storia. La coscienza più elevata deve essere “importata” – dal punto di vista delle masse – e “esportata” dal punto di vista degli intellettuali. Donde quello che Claudio Petruccioli definisce “il mandarinismo”. Si è costituita una classe di “mandarini”, depositari della coscienza della storia. Questa classe è però necessaria, perché già Lenin spiegava che le masse e che lo stesso proletariato soffrono di fatali tendenze corporative e tradeunioniste. Tocca pertanto a questa classe intellettuale raccontare “la storia giusta”.

Costretto da un’occasione contingente, sono andato a vedere in questi giorni il dibattito del V Congresso del Partito comunista, che si svolge tra la fine di dicembre del 1945 e l’inizio di gennaio del 1946 nell’Aula magna della Sapienza di Roma. E’ il primo Congresso dopo la clandestinità. L’ultimo era stato tenuto tra Colonia e Düsseldorf nel 1931.  Nel V Congresso si apre uno scontro notevole sulle questioni della scuola tra Concetto Marchesi ( un gentiliano,  a tutti gli effetti, che sostiene che ci sono troppe scuole e troppe Università, perciò molte devono essere chiuse, perché per selezionare una classe dirigente ne bastano molte meno – donde la necessità di continuare a brandire la mannaia del Latino e del Greco per selezionare gli accessi) e Elio Vittorini (che dirigeva la Rivista Il Politecnico e che presenta un’ipotesi del tutto diversa della scuola, aperta a tutti, politecnica, nella quale tutti hanno il diritto di accedere ai classici e se non possono leggere Aristotele in greco, lo potranno benissimo leggere in una buona traduzione). Togliatti si schiera dalla parte di Concetto Marchesi. Ciò che appare interessante di quel dibattito lontano non è solo la posizione di Togliatti-Concetto Marchesi sulla scuola, che è durata fino agli anni ’60 (nel 1962 il PCI votò contro l’istituzione della Scuola media unica!), ma soprattutto il ruolo che viene attribuito da Togliatti all’intellettuale, che si pone dall’alto della storia universale…

Le notazioni molto interessanti di Claudio Petruccioli sul ruolo degli intellettuali-mandarini che si leggono nell’appassionato Post-scritptum appaiono qui come il tentativo di una vox clamantis in deserto, nella lunga, ma per ora esigua marcia – quanto a numero di partecipanti – verso la costruzione di una sinistra liberale in Italia.

Sono ancora incerto se chiamarla sinistra liberale o socialismo liberale Ho l’impressione che ci sia un quid ossimorico in quest’ultima definizione di Carlo Rosselli. Mi parrebbe più rigorosa la dizione di “liberali di sinistra” o di “sinistra liberale”. Petruccioli non si cimenta qui nella definizione compiuta di cosa debba essere una sinistra liberale, ma la si intravede in filigrana, sotto le critiche che rivolge alla vecchia eredità comunista e alle sue permanenze nella sinistra attuale, che fanno da ostacolo al cammino lungo la strada che auspichiamo.

In questo spirito, voglio concludere con una citazione di Albert Camus, già uscito dal Partito comunista francese, presa dai SAGGI postumi del 1965, intitolati “Né vittime né persecutori”:  “ Si tratta insomma di definire delle condizioni di un pensiero politico modesto, cioè liberato da ogni messianismo e sgombro di ogni nostalgia del paradiso terrestre”. Questa indicazione di Camus continua ad essere buona per tutti noi.

Con essa è coerente il libro di Claudio Petruccioli, che io raccomando fortemente di leggere come libro di formazione per le generazioni più giovani.

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