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Populismo: la strategia del senso comune

Antonio Preiti mercoledì 3 Aprile 2019
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di Antonio Preiti

 

“E io sono il ministro dell’Interno perché sto dentro ognuno di voi”, scrive Giacomo Papi nel suo esilarante romanzo, “Il censimento dei radical chic”, e così, in un lampo, colpisce il cuore del problema politico italiano di oggi: il rapporto tra politica e senso comune, in sostanza, chi segue chi.

Ma andiamo con ordine. Non prima però di ricordare una citazione di Spinoza (Baruch), non dell’omonimo formidabile account Twitter, secondo cui, “gli uomini non nascono civili, lo diventano”, la storia sembra farsi complessa, perciò proviamo a semplificare.

Quando la politica era ideologia messa in pratica, una sorta di apostolato laico, il compito principale di un partito era quello di convincere il popolo delle proprie idee. A sinistra poi il “metodo” era talmente acquisito che nessuno l’ha mai messo in discussione. E ci sono motivi molto corposi per crederlo: Gramsci teorizzava il partito come l’intellettuale collettivo della classe operaia. Lo stesso partito aveva dirigenti coltissimi. Una sorta di aristocrazia intellettuale, cresciuta talvolta – e per sfida – lontano dalle università.

Il compact era molto potente: le idee vincono sul resto; i dirigenti producono le idee, il partito è la scuola e la pedagogia è tutto quello che resta. D’altra parte in Italia, in quel periodo gli iscritti ai partiti superavano i 5 milioni, e i conti sono presto fatti: un italiano su dieci, inclusi bambini e molto anziani, era iscritto a un partito. Adesso se si arriva a 500mila è già tanto.

 

Le elezioni del 1948

Però la politica non è solo razionalità e indottrinamento. Vediamo perciò un altro scorcio della nostra storia, le elezioni-referendum del 1948, quelle su cui si è costruita l’Italia per cinquant’anni. Sono state le prime elezioni politiche (e l’Italia era bipolare, perché c’erano solo la Democrazia Cristiana e il Fronte Popolare), con la DC che raccolse la maggioranza assoluta dei seggi (non avverrà mai più per nessuno).

Appena due anni prima però, nelle elezioni dell’Assemblea Costituente, la situazione era molto diversa. Il Partito Socialista aveva ottenuto il 20,7 % dei voti e il Partito Comunista il 18,9 %, mentre la DC il 35,2 %. In sostanza sommando i voti comunisti e socialisti si superava la DC. Da qui l’idea del Fronte Popolare di riunire i due partiti di sinistra.

Le elezioni del ’48 diventarono presto qualcosa di molto diverso dalle elezioni di due anni prima, perché furono elezioni identitarie. Si sta con il mondo libero e cristiano o con il mondo sovietico e ateo? Quando le questioni diventano identitarie, lo schema destra vs sinistra, o meglio centro vs sinistra salta.

Quando i dilemmi diventano identitari, si scava dentro le proprie radici, la propria storia, personale e collettiva, fino a trovare la risposta alla domanda di cosa davvero conta, di quel che non è negoziabile, si direbbe oggi. E così tra l’identità occidentale e l’identità “orientale”, la prima ha vinto. L’identità è silenziosa, e scorre più nel profondo.

 

Identità vs razionalità

Abbiamo così due punti fermi: la politica finora (cioè fino a una manciata di anni fa, non un’eternità) era fondamentalmente pedagogia e razionalità; ma non appena le questioni si presentano come identitarie, la suggestione dell’identità vince sulla “razionalità”. La politica è “razionale” solo quando pone alternative all’interno dello stesso schema. Andiamo avanti.

Qual è l’identità di un Paese allora, la sua identità collettiva? Dove si trova? Possiamo trovarla dappertutto: dalla letteratura fino ai micro-comportamenti collettivi quotidiani, quelli che si fanno senza neppure pensarci.

Il carattere italiano si ritrova in Manzoni, o in Leopardi, o nella magistrale sintesi di Giulio Bollati (“Il Carattere Italiano Come Storia e Come Invenzione”), ma anche nel modo usuale in cui ciascuno di noi si comporta nei vari casi della vita, nella nostra fisica sociale. Si ritrova in quella che possiamo definire “peer-to-peer pressure“, cioè la pressione sociale del “così fan tutti”. Alla fine ci comportiamo come tutti. E tutti come si comportano? Come gli altri. Un meccanismo circolare, ma potentissimo.

Nel 1948, dovendo scegliere tra l’ideologia sovietica e l’identità nazionale (cristiana, soprattutto) hanno scelto la seconda. Qualcosa di analogo sta succedendo nel mondo occidentale da alcuni anni a questa parte, basta sostituire all’ideologia sovietica l’ideologia multiculturalista.

 

La fine dei governi multiculturalisti

Nello spazio di due anni (la Brexit, da cui tutto è cominciato è solo del giugno 2016) tutti i governi o i leader multiculturalisti sono stati eliminati (dai democratici americani a tutti i partiti socialisti europei). Macron è una mezza eccezione, perché se certamente è un paladino dell’Europa, ha fondato la sua vittoria sulla tradizione francese di libertà, tolleranza, ecc. e sulla “grandeur” francese, su quello che possiamo definire “sovranismo democratico e liberale”, dopo aver sconfitto i multiculturalisti del Partito socialista. Insomma si è spostato decisamente al centro.

Il senso comune, o l’umore della piazza, è mutevole (la migliore descrizione, almeno di quella “italiana”, la offre Manzoni nei “Promessi Sposi”) e si autoalimenta, ruotando sempre sui suoi cardini più ancestrali e percepiti come indiscutibili.

La rivolta contro il multiculturalismo, inteso come ideologia, ha ripreso i caratteri originali del nostro Paese. Soprattutto funziona quando si perdono gli orientamenti razionali, o meglio quando si perde la fiducia in chi dovrebbe guidare il Paese. La moltitudine, anche quando si presenta come nemico irriducibile delle élites, è sempre alla ricerca di una guida, di un’altra élite. La rivolta anti-élite è sempre uno stato temporaneo, non esiste un equilibrio sociale in cui governi la moltitudine (da qui nasce la crisi, forse irreversibile, dei Cinquestelle). L’errore sarebbe considerare stabile la transizione.

 

La strategia di Salvini

Succede che, in questo clima sociale, arrivano due fatti nuovi: la possibilità tecnica di avere una cognizione, praticamente in tempo reale, dei pensieri e delle emozioni della gente e il meccanismo auto-generativo, dal basso, del “senso comune” (anche l’intervento esterno si presenta sempre come “dal basso”, come comunicazione tra pari).

Perciò da un lato le attività di “social listening“, cioè di ascolto della rete, delle conversazioni sui social media, permettono a chi lo voglia, di sapere – minuto per minuto – che impatto ha una singola notizia, una singola idea, o persino una singola parola e regolarsi di conseguenza; dall’altro la formazione delle opinioni non passa più attraverso un meccanismo pedagogico, ma attraverso l’espansione orizzontale delle opinioni “anonime”. Per dirlo con un’immagine: non è più la slavina (l’editoriale, il libro, il discorso) che parte dall’alto e si rafforza a mano a mano che scende, ma la macchia d’olio che, silenziosamente, senza neppure farci caso, s’impossessa del territorio.

La strategia di Salvini, almeno per il momento – perché in nuce sembra dar segni di voler creare una nuova élite – è “fitting to people“, cioè assecondare i sentimenti più ancestrali della gente, quelli che fanno ricorso ai sentimenti originali, quelli identitari, insomma il senso comune prevalente. Non è solo una strategia d’ascolto, perché quei sentimenti sono anche coltivati, suscitati, instillati, però non sono il frutto della forza persuasiva di Salvini, perché sono già presenti nella società e sono il frutto dello spaesamento identitario dovuto agli effetti della globalizzazione, automazione, multiculturalismo, insomma a tutto quanto registriamo nei sondaggi e nelle analisi sociali. Quando cambiano i vicini di casa, la “globalizzazione” non è più un saggio accademico.

Qui si apre il dilemma per il mondo democratico che, volendo mantenere uno schematismo, diventa: seguire i sentimenti popolari, e poi dove fermarsi? Fino a quale punto si possono seguire gli umori? È evidente che c’è un limite. L’altra ipotesi è mantenere ferme le proprie posizioni, e attendere che il vento culturale cambi, o che si generino contraddizioni interne al mondo populista, tali per cui a un certo punto si rompa il legame sentimentale con il popolo.

 

Una concezione statica

In entrambi i casi il mondo è visto come statico, come se avesse raggiunto uno status dal quale non si muoverà più. Qui aiuta l’idea di Spinoza che gli uomini diventano (o ridiventano) civili, se da un lato ottengono un riconoscimento delle loro intenzionalità e dall’altro percepiscono che i buoni sentimenti non sono rinchiusi nei confini stretti di una città, o di un Paese. La gente cambia, cambia continuamente, nel bene e nel male, e perciò il dialogo e la comprensione dei sentimenti, non la loro demonizzazione, è la base di ogni cambiamento.

Quale storia fantastica potrebbe nascere a sinistra se ci fosse un profondo, convinto abbraccio dei caratteri nazionali del Paese? Gramsci ci ha speso la vita per convincere tutti che essere nazional-popolari è una virtù (anzi una necessità); altri dopo di lui, anche di recente, hanno provato a esserlo.

Non è facile, perché il riflesso automatico è la superiorità morale, la distinzione, la tentazione eterna a guidare il pensiero degli altri. Quando sono poi pochi a seguirti su questa strada, il vicolo diventa cieco. Però l’universo democratico nasce un po’ populista (“Ogni uomo che incontro, in qualche cosa, mi è superiore”, R. W. Emerson), riconosce le intenzionalità del popolo, ne cura i sentimenti, capisce e non giudica, almeno non tutte le volte.

Insomma, ci sono radici democratiche che vanno riscoperte, e che possono trovare spazio nel cuore della gente.

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