LibertàEguale

Digita parola chiave

Condividi

di Alessandro Maran

 

Il populismo di Alexandria Ocasio-Cortez spiega qual è la vera posta in gioco alle primarie del Pd

 

Tutto il mondo è paese, si sa. Specie nell’Occidente contemporaneo. La sinistra trabocca di idee, ha scritto qualche giorno fa Fareed Zakaria sul Washington Post a proposito dei Dem americani, ma, ha subito aggiunto, sono quelle sbagliate. Nel Partito Democratico è tutto un ribollire di nuove idee, riconosce il giornalista americano. Ma queste nuove idee non hanno molto a che fare con gli sforzi di riforma degli ultimi trent’anni. Quelle dell’era Clinton-Obama erano proposte pragmatiche e progressive e mescolavano gli incentivi di mercato con l’azione pubblica.

Oggi abbiamo grandi ed entusiasmanti idee e proprio questo, scrive Zakaria, potrebbe essere il problema.

Perché con la brama di eguagliare la retorica massimalista del populismo di destra, i Democratici americani stanno facendo circolare proposte mirabolanti (dal Medicare for All all’introduzione della patrimoniale di cui si è fatta paladina la senatrice Elizabeth Warren) nelle quali i fatti il più delle volte sono travisati, i conti non tornano e l’appello ai sentimenti tende a prevalere sull’analisi concreta.

 

Il caso americano: Alexandria Ocasio-Cortez

Recentemente, nel programma televisivo di attualità «60 Minutes», in onda sulla CBS, la deputata democratica di New York Alexandria Ocasio-Cortez, colta in fallo sulla spesa militare, ha risposto: «Se si vuole davvero ingigantire una cifra qui o una parola là, si rischia di non afferrare la realtà delle cose. Un sacco di gente si preoccupa più di essere precisa e corretta, fattualmente e semanticamente, che di essere moralmente nel giusto».

E forse questo atteggiamento incurante dei fatti spiega il modo tendenzioso in cui Ocasio-Cortez (e molti altri a sinistra) ha interpretato l’accordo che la città di New York ha proposto ad Amazon per attirare nella Grande Mela la sua nuova sede centrale.

La deputata Dem ha lamentato che New York stava per dare ad Amazon 3 miliardi di dollari di incentivi che, invece, avrebbero potuto essere impiegati per pagare gli insegnanti e la metropolitana.

 

Amazon a New York

Ma come ha spiegato il sindaco democratico Bill de Blasio, «l’accordo avrebbe portato 27 miliardi di entrate allo stato e alla città per cose come l’istruzione pubblica, il trasporto pubblico, le case popolari. E Amazon avrebbe ricevuto quei 3 miliardi di incentivi solo una volta portati a casa i posti di lavoro e incamerate le nuove entrate».

Inoltre, 2,5 miliardi di quegli incentivi non erano creati appositamente per Amazon, ma erano sgravi fiscali preesistenti di cui anche il colosso di Jeff Bezos avrebbe avuto il diritto di beneficiare. In cambio, Amazon avrebbe creato direttamente almeno 25000 posti di lavoro di alta qualità, ammodernato le infrastrutture a Long Island City e offerto nuove opportunità formative.

Ovviamente, i meriti di un programma di incentivi del genere sono sempre oggetto di discussione, ma l’idea che, se New York disarma unilateralmente, le altre città e gli altri stati cessino di offrire i loro incentivi è terribilmente ingenua. Di fronte alle resistenze, ora sembra che Amazon abbia deciso di rinunciare alla sede di New York. Eppure, si trattava di un’opportunità che avrebbe permesso alla città di conquistare la leadership dell’industria tecnologica, diversificare ulteriormente la propria economia, al di là del settore immobiliare e della finanza, e aggiungere nuovo dinamismo al distretto, dimenticato, del Queens.

 

Il sovranismo all’italiana: Toninelli e… Zingaretti

Ma, si diceva, tutto il mondo è paese. «Chi se ne frega di andare a Lione», direbbe Danilo Toninelli (che ha spiegato che «nel capoluogo piemontese c’è bisogno di una metro 2, non di un buco nella montagna»). E spiegare ai Toninelli che il nostro futuro dipende dalla «connettività» (la capacità di collegarsi, comunicare, scambiare, ecc.), che più il nostro paese sarà «connesso», più avrà voce in capitolo, che ci sono possibilità che possono essere colte solo intensificando le relazioni e i flussi, è tempo perso.

Del resto, c’è qualcosa di più insensato, si chiedeva Luciano Capone, dell’opposizione a un trattato di libero scambio da parte di un paese esportatore? Eppure, la propaganda della grande coalizione populista (invasioni di multinazionali, pesticidi, carne agli ormoni e Ogm), ha trasformato il Ceta (un accordo economico globale tra l’Europa e il Canada che non parla solo del cappero di Pantelleria, tutelato dal deal, ma di macchinari, automobili, navi, mobili, calzature, farmaci, ecc.) nell’invasione degli Unni.

Arruolando nel fronte sovranista e no global anche il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, che su Twitter ha scritto: «La Regione Lazio dice stop al Ceta per difendere la qualità dei nostri prodotti tipici». Un tweet che, come i commenti di Ocasio-Cortez a «60 Minuti», riporta alla mente lo scambio di battute tra l’ex presidente della Camera Newt Gingrich e l’inviata della CNN Alisyn Camerota del luglio 2016. Camerota spiegava che, contrariamente alle insistenze di Gingrich, i dati dell’FBI mostravano chiaramente che i delitti violenti negli Stati Uniti erano in calo. Gingrich rispondeva che la gente non «sentiva» le cose allo stesso modo: «Da politico, sto con il sentire della gente e ti lascio con gli intellettuali».

 

La distorsione dei fatti e i corbyniani di casa nostra

C’è già un partito, in America, che sistematicamente distorce i fatti, disprezza gli argomenti, ignora le analisi politiche serie e si inventa storie per fare appello alle emozioni e ai pregiudizi della gente. Se anche i Democratici si incamminano su questa strada, scrive Zakaria, la politica americana piomberà davvero nel Medioevo. Ma, dicevamo, tutto il mondo è paese. Di partiti che distorcono i fatti e inventano storie per fare appello alle emozioni dalle nostre parti ne abbiamo (almeno) due e la battaglia in corso (da tempo) per l’anima del Pd deciderà quale strada prenderanno i Dem nostrani.

Non deve sorprendere che il progetto del governatore del Lazio (e di tutta la sinistra corbyniana di casa nostra, giornaloni compresi) sia quello di ricostruire i Democratici «di sinistra» in funzione di una grande alleanza con i populisti. L’alleanza con i Cinque Stelle non è solo una scorciatoia per tornare in sella.

Come ha spiegato benissimo Alberto De Bernardi, l’idea di fondo è che oggi la contrapposizione non sia quella europeismo liberal-progressista contro populismo, ma sinistra contro neoliberismo, all’interno della quale il populismo sarebbe solo una febbre passeggera (alimentata proprio dalle contraddizioni del neoliberismo) utilizzabile proprio perché attraversato da elementi di sinistra «anticapitalistici».

 

La posta in gioco delle primarie del Pd

Secondo Zingaretti, la sudditanza ideologica al neocapitalismo dei governi del Pd, va infatti superata in nome della riscoperta dell’anticapitalismo come cifra identitaria di una partito di sinistra e di un «riformismo conflittuale» che usa la spesa pubblica per sanare le diseguaglianze e la leva fiscale per colpire i grandi patrimoni.

Da qui origina l’«antirenzismo».

E la posta in gioco nelle primarie del Pd è quella riassunta da De Bernardi: «Se di fronte a una società fluida e multietnica, fatta di persone più che di classi, che vive di fatto in una dimensione spazio-temporale irriducibile allo stato-nazione novecentesco perché mondiale e locale al tempo stesso, ma che possiede ancora un altissimo capitale sociale ereditato dall’universalismo progressista della seconda metà del Novecento, il compito dei riformisti debba essere rinunciare a cimentarsi in questa sfida limitandosi a difendere gli ultimi benefici del fordismo anche se questo comporta inevitabilmente un ritorno alla nazione come ultimo cavallo di frisia – il corbynismo è questo, in buona sostanza –; oppure accettare la sfida e riproporsi di delineare un nuovo modello di crescita nel quale libertà d’impresa, innovazione tecnologica e giustizia sociale costituiscano i nuovi perni su cui lasciarci definitivamente dietro le spalle la crisi della globalizzazione neoliberista». Non c’è che dire, tutto il mondo è paese.

 

 

(Articolo pubblicato su Il Foglio)

Tags:

Lascia un commento

L'indirizzo mail non verrà reso pubblico. I campi richiesti sono segnati con *