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Soleimani, la riluttanza degli Usa e la svolta in Medio Oriente

Alessandro Maran venerdì 3 Gennaio 2020
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di Alessandro Maran

 

Secondo molti osservatori, la morte di Qassem Soleimani, il più influente generale iraniano, considerato il numero due nella gerarchia del potere a Teheran, potrebbe scatenare un vero e proprio conflitto tra Stati Uniti e Iran (proprio il giorno prima, sul Foglio, Daniele Raineri spiegava il ruolo del generale iraniano nell’assalto dell’ambasciata americana a Baghdad. E, manco a dirlo, i venti di crisi in Medio Oriente hanno causato un’impennata del prezzo del petrolio.

In ogni caso, tuttavia, come ha scritto Suzanne Maloney su Foreign Affairs recensendo «Towards a Westphalia for the Middle East», il libro di Patrick Milton, Michael Axworthy e Brendan Simms che propone un «Grande Patto» per risolvere i problemi del Medio Oriente sul modello della Pace di Vestfalia del 1648 che pose fine alla Guerra dei Trent’anni, «il 2019 potrebbe essere ricordato come un punto di svolta per il Medio Oriente».

 

Un punto di svolta per il Medio Oriente

Perché un punto di svolta? Perché «la violenza e l’instabilità apparentemente irrisolvibili che affliggono la regione alla fine hanno esaurito l’enorme fiducia degli Stati Uniti nella loro capacità di risolvere i problemi. Cinquant’anni fa, gli Stati Uniti cominciarono a riempire il vuoto lasciato dal ritiro inglese dal Golfo Persico e, dapprima cautamente, assunsero il ruolo di ‘mediatore di pace’ regionale. Nonostante i suoi difetti – che sono stati parecchi – durante questo periodo la leadership degli Stati Uniti ha ottenuto alcuni risultati storici, compresi gli accordi di Camp David del 1978 tra Egitto e Israele, la liberazione del Kuwait del 1991 e la salvaguardia delle esportazioni petrolifere in un’epoca di intensi conflitti. Ora, tuttavia, l’assunto di un interesse vitale degli Stati Uniti nel promuovere la pace e la sicurezza nel Medio Oriente si sta sgretolando sotto il peso del mutamento dei mercati energetici e dei costi umani e finanziari delle guerre apparentemente interminabili di Washington nella regione. ‘Lasciamo che qualcun altro combatta su questa sabbia macchiata di sangue’, ha detto il presidente di Stati Uniti Donald Trump nell’ottobre del 2019, motivando la sua improvvisa decisione di ritirare le truppe americane dalla Siria nord-orientale».

Del resto, che gli Stati Uniti non siano più disposti a «mandare una nuova generazione di americani oltremare per combattere e morire per un altro decennio sul suolo straniero», Obama lo ha ripetuto fino alla noia. Infatti, scrive Suzanne Maloney, «la volontà di Trump di sganciarsi dal Medio Oriente sembra in sintonia non soltanto con la sua base ma anche con parecchi dei candidati democratici della campagna presidenziale del 2020, i quali, come lui, hanno invocato la riduzione delle truppe e perfino il ritiro dalle ‘guerre eterne’ in Afghanistan e in Iraq. Quando l’Iran ha attaccato gli impianti petroliferi sauditi nel settembre 2019, la riluttanza di Trump a rispondere con qualcosa di diverso dalle frettolose sanzioni ha incontrato l’approvazione bipartisan».

Perciò, con l’aria che tira, con questo «Zeitgeist di malinconica rassegnazione», il nuovo volume di Patrick Milton, Michael Axworthy e Brendan Simms, scrive la Deputy Director del Foreign Policy Program della Brookings Institution, è un contributo straordinariamnete piacevole alla letteratura sulla risoluzione conflitti del Medio Oriente (Milton e Simms sono storici dell’Europa all’Università di Cambridge e Axworthy – morto all’inizio dell’anno – ha scritto cinque libri sull’Iran dopo una carriera nella British Foreign Office).

 

Che cosa serve oggi al Medio Oriente?

«Il loro approccio innovativo applica gli insegnamenti tratti dalla Guerra dei Trent’anni, una serie di conflitti devastanti che hanno sconvolto l’Europa centrale tra il 1618 al 1648, e dall’accordo che alla fine li ha composti, la Pace di Vestfalia, alla guerra in Siria e alla violenza che ha colpito il Medio Oriente dalle rivolte arabe del 2010-2011. La Guerra dei Trent’anni fu, come sottolinea il materiale promozionale del libro, ‘la guerra interminabile originaria’: quella che è cominciata come una ribellione protestante contro il Sacro romano impero cattolico, col tempo ha attirato nel conflitto le grandi potenze come la Danimarca, la Francia, la Spagna e la Svezia, determinando una conflagrazione che durò decenni. Pubblicato in concomitanza con il Quattrocentesimo Anniversario dello scoppio del conflitto, il volume corregge alcuni errori comuni in merito alla pace che lo ha concluso, specialmente l’idea che Vestfalia abbia sancito saldamente i principi della sovranità statale e del non intervento. La vera innovazione del trattato – e la ragione per cui offre un piano per il Medio Oriente di oggi – è stato il meccanismo legale per la risoluzione dei conflitti, esteso sul continente, che ha messo in atto. Tale meccanismo sembra davvero una soluzione interessante per una regione che oggi è devastata dai conflitti e dalle rivolte. Ma il libro non riesce nel tentativo di affermare che un quadro analogo potrebbe vedere la luce nel Medio Oriente contemporaneo e avere successo».

«Non si otterrà – conclude Maloney – la fine delle ‘guerre eterne’ del Medio Oriente con un tratto di penna o con un patto tra leader in lotta tra loro e nemmeno attraverso la potenza militare degli Stati Uniti. Verrà piuttosto attraverso il potere di cittadini critici ed attivi che chiedono le riforme, appoggiati dall’impegno diplomatico, dall’assistenza tecnica e da investimenti economici diretti a costruire nella regione governi coerenti, dinamici e responsabili. Quello di cui il Medio Oriente ha bisogno oggi non è una Pace di Vestfalia ma di una propria versione degli Accordi di Helsinki – un processo che coniuga riforme politiche, sociali ed economiche interne col dialogo in materia di sicurezza regionale. Senza un tale sforzo e senza una volontà politica di pace da parte dei principali attori, le lunghe guerre del Medio Oriente sono destinate a continuare». Da leggere.

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