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di Stefano Ceccanti

 

Il 25 maggio ha compiuto cinquant’anni la legge sui referendum (n. 352 del 25.5.1970, ma pubblicata in “Gazzetta” il 15 giugno successivo): una legge che consentì da lì in poi l’attivazione sia del referendum abrogativo sia di quello costituzionale.

Perché più di vent’anni di mancata attuazione? Perché i partiti politici – come ben spiega Augusto Barbera nella voceCostituzione della Repubblica italiana dell’Enciclopedia del Diritto – temevano che il nuovo istituto potesse intaccare “la centralità e del Parlamento e dei partiti politici”. Già nel 1946 i partiti di sinistra avevano cercato di evitare che la scelta istituzionale fosse affidata direttamente ai cittadini, anziché all’Assemblea Costituente. Anche nei lavori dell’Assemblea il progetto inizialmente molto più ampio di Mortati fu progressivamente amputato delle parti più innovative. Ne derivò un’impostazione minimale, come spiega Barbera, tesa a privilegiare “i profili di garanzia rispetto a quelli di democrazia diretta”. I timori furono però tali da scoraggiare anche l’attuazione di quello strumento, pur così ridimensionato.

Mi concentrerò sull’abrogativo, dopo aver detto qualche parola su quello costituzionale. Prima di tale data, in assenza della legge attuativa, la revisione costituzionale era quindi possibile solo ricorrendo al comma 3 dell’art. 138: ossia all’approvazione con la maggioranza dei due terzi dei componenti (che preclude la possibilità di richiedere la consultazione popolare). Bene, dirà qualcuno, giacché sarebbero state quindi impossibili, allora, revisioni a maggioranza assoluta. In realtà, però, quel vincolo si tradusse almeno in parte in una fuga dalla Costituzione, a cominciare dallo sviluppo dell’integrazione europea che in Italia avvenne per legge ordinaria, stanti le contrarietà iniziali delle sinistre.

Tornando al referendum abrogativo e alla storia, la legge nacque come scambio per l’approvazione di quella sul divorzio, che era già in un iter avanzato e che fu approvata sei mesi dopo con una maggioranza diversa da quella di governo, comprendendo i partiti di sinistra e quelli denominati laici. La Democrazia cristiana accettava la sconfitta parlamentare, ma, trascinata dal cattolicesimo intransigente, chiedeva la legge sui referendum nell’illusione di una parte della sua dirigenza (con varie eccezioni, tra cui quella di Aldo Moro) di poter capovolgere nel Paese il verdetto parlamentare. Del resto la cultura intransigente, in un Paese segnato dalla breccia di Porta Pia, si era sempre basata sullo schema del popolo cattolico da difendere da un’élite dirigente laica; essa faceva fatica a cogliere come alcuni mutamenti culturali fossero la conseguenza della modernizzazione impressa in ambito economico proprio dai governi a guida Dc.

Paradossale, come ebbe a notare Pietro Scoppola nel suo La nuova cristianità perduta, fu la parabola di Fanfani, grande modernizzatore dell’economia che si trovò a guidare una battaglia per tentare di fermare sul piano culturale i mutamenti che aveva appunto concorso a provocare. Eppure, come si è saputo solo pochi anni fa dagli studi di padre Sale della “Civiltà Cattolica”, già nel 1947, alla Costituente, i deputati di più stretta osservanza degasperiana si erano opposti alla costituzionalizzazione dell’indissolubilità del matrimonio, ritenendo che già allora essa, pur non in discussione nella legislazione ordinaria, fosse una forzatura di parte difficilmente difendibile se imposta con blindatura costituzionale. Suscitando vibrate reazioni sia da parte degli alti vertici della Chiesa di allora sia da parte di molti autorevoli colleghi, compresi gli esponenti più in vista del gruppo dossettiano. Non a caso a scrutinio segreto alcuni dissenzienti non la votarono, mentre vari altri risultarono assenti: così il vincolo dell’indissolubilità inserito nel Progetto originario fu soppresso per soli tre voti. Si trattò, il 23 aprile 1947, della prima votazione a scrutinio segreto di tutta l’Assemblea, chiesto evidentemente perché quelle e altre riserve nelle destre erano note ai costituenti laici e di sinistra.

Fin qui la connessione tra divorzio e referendum che veniva a rimuovere uno dei punti chiave della mancata attuazione costituzionale e che, di lì a poco, avrebbe anche determinato il primo scioglimento anticipato della storia della Repubblica, nel 1972, per la volontà della Dc di allontanare un referendum che avrebbe comunque lacerato quella che restava l’unica maggioranza di governo possibile. Un rinvio che, grazie ad alcuni astuti espedienti giuridici, spostò la consultazione addirittura di due anni, fino al 1974. Un tema di natura simile, quello sull’aborto, in seguito a una prima raccolta di firme radicale contro le norme proibizioniste del codice Rocco, provocò anche il secondo scioglimento anticipato, quello del 1976. In quel caso il referendum serviva anche a prevenire l’avvicinamento in corso tra i due partiti maggiori dell’epoca (Dc e Pci), che si realizzò dopo il voto del 1976 e che si rese possibile distinguendo di nuovo la maggioranza di governo da quella che avrebbe votato la nuova legge, associando, come nel 1970, partiti di sinistra e laici. Come sempre, però, politics epolicies si legano: da lì ripartirono infatti contro la nuova legge le opposte iniziative dei settori che erano contrari al punto di equilibrio di merito trovato, ma che erano contrari ancor di più alla formula di solidarietà nazionale, da un lato i radicali e dall’altro i settori del cattolicesimo intransigente. Quando si arrivò però alla consultazione, che anche in quel caso confermò la legge che fu vista dagli elettori come una via di mezzo tra opposti estremismi, quella formula, però, si era già esaurita.

Tipico di tutto questo primo periodo di prassi referendaria fu il fatto che, all’esito del voto popolare, gli equilibri parlamentari venivano confermati: le maggioranze parlamentari rispecchiavano effettivamente i rapporti di forza presenti nella società. In un sistema ancora privo di alternanza, l’istituto del referendum però ebbe il merito di costituire un anticipo della logica binaria vincitori-sconfitti propria delle votazioni maggioritarie. Se ne accorse anche il Pci, tradizionalmente molto ostile allo strumento, che quando vi ricorse, nel 1984-85, per reagire alla perdita del suo potere di veto in ambito lavoristico-sindacale venne pesantemente sconfitto, con la fine delle illusioni suscitate dal breve primato delle europee del 1984. L’utilizzo da parte dei radicali delle raccolte di firme si rivelò una sorpresa sia rispetto al modello costituzionale sia proprio alla legge poiché essa era stata costruita imponendo molti appesantimenti burocratici allo scopo di favorire le grandi rete organizzate, essenzialmente quelle legate al mondo cattolico e al Pci. Sulla loro scia anche altre forze spezzarono l’oligopolio dei gruppi per i quali erano stati immaginati. I radicali si resero però protagonisti anche di un abuso dello strumento, in un gioco a rincorsa con la Corte costituzionale anch’esso non prevedibile nel momento del varo del testo costituzionale. Più quest’ultima frapponeva ostacoli, con una giurisprudenza spesso molto restrittiva, più essi moltiplicavano i quesiti, nel tentativo, con consultazioni a grappolo, di surrogare un intero programma di governo.

L’equilibrio, il rispecchiamento tra eletti ed elettori, che aveva però già mostrato qualche incrinatura nel referendum promosso appunto dai radicali nel 1978 contro il finanziamento pubblico dei partiti, arrivato al 43,6% dei “sì”, in seguito si rompe. Dopo le avvisaglie dei referendum sulla giustizia e sul nucleare del 1987, il punto di svolta è indubbiamente rappresentato dal primo referendum elettorale, quello del 1991, con un verdetto che va ben oltre l’oggetto della consultazione, l’eliminazione delle preferenze multiple e della loro espressione mediante apposizione sulla scheda di numeri al posto dei nomi. Il referendum si rivela prezioso non solo per fotografare la rottura intervenuta nella maggioranza pentapartitica di allora (esso era stato osteggiato esplicitamente dal Psi ma di fatto anche dalla maggioranza della Dc, guidata da Andreotti e Forlani alleati di Craxi nel cosiddetto Caf: il sistema di potere politico che aveva ingessato la fase finale del primo sistema dei partiti), ma si rivelò anche un prezioso strumento per imporre un diverso equilibrio tra elettori, partiti e istituzioni. L’obiettivo fu raggiunto ai piani bassi dell’ordinamento, sotto la minaccia di un altro referendum, grazie alla legge del ’93 per i sindaci, approvata per prevenire quest’ultimo. A ciò si aggiunse la doppia riforma (elettorale e poi costituzionale nel 1995 e nel 1999 per le Regioni). Il tutto però fu reso possibile appunto dall’ampio successo del voto del 9 giugno 1991, favorito da un ampio crogiuolo precedente di molte componenti riformiste del Paese confluite in quel movimento referendario (dal cattolicesimo democratico delle associazioni, in primis la Fuci e le Acli, in connessione con parte della sinistra Dc, al nuovo Pds, ai radicali), perché esso aprì la strada all’ammissibilità del quesito maggioritario del 1993, a una ristrutturazione forte del sistema dei partiti e creò un nuovo clima che rese possibile l’attivazione delle inchieste giudiziarie contro una corruzione effettiva e diffusa, anche se le modalità concrete di quell’attivazione si svilupparono con varie contraddizioni e forzature.

Il 1999, di cui si è appunto parlato per l’elezione diretta dei presidenti delle Regioni, è però anche l’anno in cui fallisce per poche migliaia di voti, anche a causa degli elettori residenti all’estero, le cui liste non erano aggiornate da anni e includevano anche molte persone non più in vita, l’abolizione della quota proporzionale della legge elettorale: ciò costituì un primo grave stop allo sbocco della transizione a livello nazionale, segnando l’inizio del tramonto della tendenza maggioritaria. Sarebbero seguiti altri tentativi senza successo, per via referendaria, falliti o per scarsa partecipazione o per inammissibilità sancita dalla Corte costituzionale fino all’esito del referendum, stavolta costituzionale, del 2016.

Se in questi giorni qualcuno scopre le conseguenze dell’asimmetria fra legittimazione popolare (e dunque forza politica) dei presidenti di Regione e del governo nazionale, deve in realtà risalire a quel doppio passaggio del 1999: introduzione dell’elezione diretta del presidente per le Regioni in Parlamento, no al compimento della transizione maggioritaria per via elettorale nel referendum per governo nazionale. Il vero problema delle consultazioni referendarie è stato quello dell’aumento dell’astensionismo elettorale, che ha reso possibile anche un uso tattico dell’astensionismo elettorale da parte dei difensori delle varie leggi oggetto di iniziativa abrogativa: in presenza di un astensionismo fisiologico del 30%, impensabile al momento dell’approvazione della Costituzione, diventa infatti ben più agevole per chi è contrario all’abrogazione cercare di convincere un venti per cento dell’elettorato a disertare dal voto anziché sfidare il “sì” in una battaglia aperta nel voto. Per questo si sono diffuse proposte tese a ridurre il quorum tenendo conto della crescita fisiologica dell’astensionismo. Ad esse resta affidata la possibilità di un rilancio forte dell’istituto. Come ha spiegato sempre Barbera nella citata Voce, l’istituto referendario è quindi sfuggito all’orbita molto ridotta in cui era stato collocato, ma anche a causa dell’astensionismo fa fatica a trovarne una più stabile.

In questa legislatura, com’è noto, si era iniziato il dialogo soprattutto su un progetto del Movimento 5 Stelle, fatto proprio dalla precedente maggioranza, di inserimento di un referendum di tipo propositivo collegato all’iniziativa legislativa popolare, che tuttavia nella sua logica iniziale, a differenza di altre proposte precedenti, tendeva ad andare nella direzione sostanzialmente opposta a quella fatta propria nel 1948. Lo strumento referendario era in partenza concepito come alternativa pressoché autosufficiente alla democrazia rappresentativa. Pur con alcune significative correzioni, accolte alla Camera dalla relatrice Dadone, attualmente ministro per la Pubblica amministrazione, compresa la riforma del quorum (sia per l’abrogativo sia per il propositivo l’asticella era posta a un quarto degli aventi diritto al voto, ossia il “sì” non avrebbe solo dovuto superare il “no”, ma rappresentare almeno un quarto degli elettori), il testo passato al Senato continuava a muoversi in larga parte secondo l’impostazione originaria. Esso è al momento bloccato alla Commissione Affari Costituzionali del Senato (sulla vicenda si veda comunque il mio contributo Abbiamo bisogno del referendum propositivo?, in “il Mulino” n. 2/2019, pp. 247-253).

Le vicende referendarie sono quindi un test per parlare di una transizione confusa, la cui via di uscita, in questa fase, sembra smarrita. E tuttavia, pur con i suoi limiti e tra varie contraddizioni, il referendum sembra nel complesso aver aiutato la democrazia rappresentativa: nella fase della più immediata sintonia tra rappresentati e rappresentanti a battere derive estremiste rivelandone il carattere minoritario; in quella successiva a frenare tentazioni oligarchiche aprendo la strada a una democrazia competitiva. Può e deve essere rilanciato, come scrive sempre Barbera, solo nella logica della complementarietà tra democrazia rappresentativa e diretta, con la prima che, pur centrale, accetta significative correzioni nei temi in agenda e nelle direzioni da intraprendere.

 

(Pubblicato su Il Mulino il 25 maggio 2020)

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