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50 anni di Statuto dei lavoratori: un bilancio fuori dagli schemi

Pietro Ichino martedì 26 Maggio 2020
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di Pietro Ichino

 

Se non vogliamo tornare a commettere l’errore del secolo scorso, la strategia per la protezione del lavoro e al tempo stesso per la costruzione dell’eguaglianza di opportunità oggi deve essere centrata non su di una protezione dei lavoratoridal mercato, ma su di una loro protezione nel mercato

 

Un aspetto della vicenda dello Statuto dei Lavoratori poco conosciuto è quello della dialettica – che percorse tutto il decennio degli anni ’60 – tra i fautori dell’intervento legislativo (soprattutto il Psi, che ne aveva fatto una bandiera, una ragion d’essere della propria partecipazione al governo con la DC) e i contrari: tra questi soprattutto la Cisl, il cui motto era “il nostro Statuto è il contratto!”.

La Cisl si era già opposta con forza all’emanazione della legge del 1966 sui licenziamenti individuali: l’accordo interconfederale del 1965 era nato proprio con l’intendimento, comune a Confindustria, di evitare l’intervento legislativo (poi la legge n. 604/66 sarebbe stata varata lo stesso, ma avrebbe ricalcato in tutto e per tutto quell’accordo). Negli interventi alla Camera del segretario della Cisl Bruno Storti e del deputato Amos Zanibelli veniva denunciato il rischio di una “istituzionalizzazione del sindacato” e di una “espropriazione [ai danni del sistema delle relazioni industriali] della regolazione dei rapporti di lavoro”.

La Cisl paventava innanzitutto che la disciplina del lavoro, sottratta all’accordo tra le parti sociali, potesse essere assoggettata alle oscillazioni degli equilibri politici, non corrispondendo più ai veri interessi comuni di imprese e lavoratori. Ma paventava anche i rischi contrapposti di norme generali non adattabili alle esigenze specifiche aziendali o di settore, e viceversa di norme dettate per i casi singoli, basate su concessioni di natura clientelare, ma destinate ad assumere applicazione generale; quindi un accumularsi di norme disordinato. La Cisl paventava infine il rischio di forzature politiche (come quella che in effetti si verificò in Parlamento sulla materia delicatissima dei licenziamenti, il famoso articolo 18, rispetto al testo del disegno di legge governativo elaborato dalla Commissione coordinata da Gino Giugni, che era stata insediata dal ministro Brodolini).

A parte quella forzatura, lo Statuto dei lavoratori nacque, come già la legge del ’66 sui licenziamenti, in aderenza abbastanza stretta ai contenuti dei rinnovi contrattuali del ’69-70. E – nonostante che fosse stato qualificato come “legge mal fatta” – era un testo legislativo esemplare per chiarezza e semplicità: 41 articoli brevi, immediatamente leggibili e comprensibili da chiunque. Tant’è vero che venne diffuso in milioni di copie in ogni angolo del Paese, e nel giro di due o tre mesi milioni di lavoratori e imprenditori furono in grado di capire la nuova disciplina delle mansioni, delle visite mediche, dei controlli a distanza, dei trasferimenti, dei permessi sindacali, delle assemblee in azienda e così via.

Era, da questo punto di vista, un testo legislativo perfettamente in linea con le altre grandi leggi in materia di lavoro degli anni precedenti: quelle sul divieto di interposizione (1960), sui contratti a termine (1962), sulla protezione della lavoratrice in occasione del matrimonio (1963), sui licenziamenti (1966). Fu dalla seconda metà degli anni ’70 in poi che le preoccupazioni della Cisl incominciarono a rivelarsi fondate: incominciò la produzione legislativa di tipo alluvionale, legata alle circostanze contingenti, destinata a risolvere casi aziendali particolari, soggetta a continui rimaneggiamenti, che ha dato luogo all’attuale configurazione della legislazione del lavoro: complessissima, illeggibile senza l’aiuto dei consulenti professionali e talvolta incomprensibile anche a questi ultimi, estremamente volatile e quindi inaffidabile.

E qui, proprio a causa degli eccessi legislativi accumulatisi nel tempo, nell’ultimo decennio si è assistito a una sorta di rivincita della contrattazione collettiva sulla legge, una sorta di vittoria tardiva della Cisl: dal 2011, con il decreto n. 138 emanato all’indomani della lettera Trichet-Draghi al Governo italiano, in pieno agosto e nell’occhio del ciclone di una gravissima crisi economico-finanziaria, che ha sancito il potere della contrattazione collettiva aziendale di derogare alla legge ordinaria; poi con numerose altre norme legislative che hanno ampliato questa possibilità di deroga, ultimamente quella del 2019 sul lavoro dei riders.

Così la contrattazione collettiva, a mezzo secolo di distanza dalla “sconfitta” inflittale dall’interventismo legislativo, ha riconquistato una sorta di primazia sulla legge. Primazia che, però, le confederazioni maggiori – curiosamente – hanno in un primo tempo rinunciato esplicitamente ad esercitare: il 14 settembre 2011, all’atto della ratifica dell’Accordo interconfederale del giugno precedente sui rapporti tra contrattazione centrale e periferica, su iniziativa della Cgil esse hanno sottoscritto con Confindustria una “dichiarazione congiunta” contenente appunto una dichiarazione programmatica contraria all’utilizzazione del potere di deroga attribuito alla contrattazione decentrata dal decreto-legge n. 138. In seguito quel potere è stato, in realtà, esercitato a più riprese, ma quasi di nascosto e sempre con la preoccupazione di sottolineare l’eccezionalità del caso.

Per altro verso, le stesse Cgil Cisl e Uil, sono debitrici allo Statuto del ’70 di un poderoso sostegno. Qualcuno si è spinto addirittura a rimproverare allo Statuto di aver in qualche modo assicurato loro una sorta di monopolio della presenza sindacale nelle aziende. Questa critica non tiene conto del fatto che nel 1969,  alla vigilia del varo della legge, era in atto un processo di unificazione fra le tre confederazioni, che appariva destinato a concludersi felicemente di lì a poco: infatti già nel 1972 sarebbe nata la Federazione Cgil-Cisl-Uil, che rappresentava allora la quasi totalità del movimento sindacale italiano. Il legislatore non si pose il problema della valutazione comparativa di maggiore rappresentatività tra i sindacati perché la questione appariva antistorica, un problema non attuale. Solo un quindicennio più tardi, il sindacalismo autonomo si affermerà come realtà rilevante nel tessuto produttivo; e quando il patto e il decreto di San Valentino sulla scala mobile sanciranno definitivamente il fallimento del processo di unificazione, il problema della misurazione comparativa della rappresentatività tornerà di piena attualità, così ponendosi le premesse per la riscrittura referendaria dell’articolo 19 del 1995.

Se un vero grave difetto può essere imputato allo Statuto del 1970, non è quello di non aver previsto il fallimento del processo di unificazione sindacale, bensì quello di aver fatto propria una strategia di protezione del lavoro interamente centrata sulla tutela degli interessi della persona nel rapporto, affidando la tutela nel mercato a un meccanismo vetusto, inefficace e anzi dannoso per i lavoratori, quale era il monopolio statale del collocamento: meccanismo cui lo Statuto dedica due articoli, il 33 e il 34, tendenti addirittura al suo irrigidimento e rafforzamento. Si dovrà attendere la fine del secolo perché quel ferrovecchio venga mandato in soffitta; e nel frattempo nessuno si occupa di progettare e ingegnerizzare i nuovi strumenti di protezione della persona che lavora nel mercato.

Per venire all’oggi, se non vogliamo tornare a commettere l’errore del secolo scorso, la strategia per la protezione del lavoro e al tempo stesso per la costruzione dell’eguaglianza di opportunità oggi deve essere centrata non su di una protezione dei lavoratori dal mercato, ma su di una loro protezione nel mercato. In Italia, alla fine del 2019, venivano censite un milione e duecentomila situazioni di skill shortage, cioè posti di lavoro che rimanevano permanentemente scoperti per mancanza di persone capaci di ricoprirli. Il problema, dunque, non è soltanto né principalmente di mancanza del lavoro, bensì di mancanza dei servizi efficaci indispensabili per consentire a centinaia di migliaia di persone di rispondere alla fame di personale qualificato e specializzato delle imprese.

Nel XXI secolo, nel quale l’obsolescenza delle tecniche applicate ha assunto un ritmo elevatissimo, la sicurezza economica e professionale delle persone non può essere perseguita attraverso l’ingessatura dei posti di lavoro: la si può perseguire soltanto innervando capillarmente il mercato del lavoro di servizi efficaci di informazione, di orientamento professionale per gli adolescenti e per gli adulti, di formazione e addestramento mirati a rispondere alla domanda finora insoddisfatta, capaci davvero di soddisfarla. E la cui capacità di soddisfarla sia controllata capillarmente, misurata e resa conoscibile da tutti gli interessati.

Solo su un sistema di servizi efficaci, dei quali si conosca con precisione il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, si può fondare il diritto al lavoro di cui parla l’articolo 4 della Costituzione. Non per caso è a un sistema della formazione professionale così concepito che Bruno Trentin già nei primi anni ’90 si riferiva come allo strumento fondamentale per la sicurezza economica e professionale dei lavoratori nel secolo che stava per aprirsi: quello che potremmo indicare oggi come una sorta di “articolo 18 del XXI secolo”.

 

(Pubblicato sulla rivista Giustizia Civile)

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