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Abolire il valore legale del titolo di studio è giusto

Giovanni Cominelli martedì 20 Novembre 2018
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di Giovanni Cominelli

 

 

Ad intervalli irregolari, scanditi principalmente dalle esigenze della propaganda politica, si accende la discussione sull’abolizione del valore legale dei titoli di studio. L’ha proposta recentemente Salvini. Quanto al M5S, l’aveva già inserito nel programma del 2009. Le motivazioni espresse sono del tutto opposte.

 

Gli opposti schieramenti

Per Salvini è necessario spezzare un meccanismo di legalizzazione che favorisce le Scuole e le Università meridionali, grazie alla  generosità nel fornire il massimo dei voti alla maturità e alle lauree, a scapito di quelle del Nord, più serie e più severe.

Per il M5S, si tratta di bypassare il giudizio della scuola e dell’Università ai fini dell’assunzione dei giovani da parte dello Stato. Infatti, a tutt’oggi il possesso di un titolo di studio con valore legale è la pre-condizione per poter partecipare ai concorsi statali. L’abolizione del valore legale era anche nel programma del centro-destra dal 1994, che però non ne ha mai fatto un punto di una convinta battaglia, a causa di dissidi interni. Ed era stata auspicata anche dal cosiddetto “Piano di rinascita democratica” della Loggia P2. Ma, ancor prima, da Sturzo e da Einaudi.

Invece, la sinistra antica e recente ha sempre difeso il valore legale del titolo di studio. La sua abolizione, sostengono, farebbe “esplodere” le diseguaglianze di prestazioni tra le Università; pertanto, favorirebbe quelle che hanno professori migliori e tasse più alte e rafforzerebbe le diseguaglianze socio-economiche. Di più: l’Amministrazione potrebbe cominciare a selezionare in modo clientelare, dando così peso diverso ai titoli di studio in base all’Istituto/Università di provenienza. Si teme anche che un’abolizione generalizzata del valore legale comporti una cessione di potere in materia di formazione da parte dello Stato non al mercato, ma alle corporazioni professionali.

Fin qui le due posizioni politico-culturali nette. Il tema del “valore legale” è stato oggetto di un’indagine conoscitiva della VII Commissione del Senato, conclusasi nel febbraio 2012, che non ha smosso le acque: la constatazione di una resistenza culturale e corporativa molto diffusa ha portato alla conclusione di lasciare le cose come stanno.

 

La questione giuridica e costituzionale

Dal punto di vista giuridico, il Regio Decreto 31 agosto 1933, n. 1592, stabilisce all’art. 167, che le Università e gli Istituti superiori conferiscono, in nome della Legge, le lauree e i diplomi determinati dall’ordinamento didattico. I titoli di studio hanno un valore esclusivamente di qualifiche accademiche (art. 172). L’abilitazione all’esercizio professionale è conferita a seguito di esami di Stato, cui, tuttavia, sono ammessi soltanto coloro che abbiano conseguito presso università i titoli accademici. L’art. 33, comma 5, della Costituzione ha confermato il Decreto: “E` prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”. Il candidato deve essere in possesso esattamente del titolo richiesto per il concorso. Perciò gli uffici pubblici e le professioni sono ordinati in modo che per accedere ai concorsi pubblici e agli esami di Stato è necessario avere un titolo di studio legale. Dunque, il valore legale non è in Costituzione direttamente, ci arriva per mezzo dell’esame di Stato.

Di fatto, l’evoluzione del mercato del lavoro ha ridotto, per quanto riguarda l’economia e le professioni non protette dallo Stato, il ruolo del valore legale dei titoli di studio, mentre è rimasto decisivo per l’accesso agli uffici pubblici e alle professioni regolamentate dallo Stato.

Secondo Sabino Cassese, il valore legale può servire, di fatto, all’Amministrazione statale, considerato che essa sembra sempre meno in grado di valutare la professionalità dei propri con corsisti e perciò si affida a Enti pubblici esterni quali le Scuole e le Università.

 

Perché è giusto abolire il valore legale del titolo di studio

Si deve forse chiarire preventivamente più precisamente che cosa significano le espressioni: “valore reale” e “valore legale” di un titolo di studio.

Il valore reale indica la corrispondenza tra la dotazione di conoscenze, abilità e competenze acquisite e le richieste del sistema economico, del sistema socio-culturale, del sistema amministrativo. Sistemi attraversati dalle dinamiche della globalizzazione e perciò sottoposti a mutamenti più o meno rapidi ed esigenti, che richiedono un adeguamento/aggiornamento in tempo reale della dotazione di competenze.

La misura del valore è fornita dai risultati in termini di sviluppo economico, sociale, civile e in termini di efficienza amministrativa.

Non è qui il luogo per dare un giudizio sul valore del patrimonio di conoscenze e competenze del sistema Paese. Si rimanda, al riguardo al recente Rapporto ISTAT sulla conoscenza del 2018 e al rapporto sull’analfabetismo funzionale degli Italiani. Ne risulta che il valore è decisamente basso. Se non bastassero i risultati visibili a occhio nudo, dei quali il PIL è la rappresentazione statistica più nota, ci si potrà sempre rivolgere alle valutazioni e comparazione degli organismi internazionali, in particolare al’ OCSE-PISA e similari.

Come si misura il valore della dotazione di conoscenze, abilità e competenze acquisite da parte dei singoli? Occorre un sistema nazionale omogeneo di certificazione sulla base di parametri socio-culturali condivisi. Fino a tutta l’epoca gentiliana del sistema scolastico e universitario esisteva. Saltati i parametri gentiliani, non ne sono stati ricostruiti di nuovi né, tampoco, sono stati condivisi. L’anarchia certificativa è diventata la regola. Ogni istituto scolastico e ogni Università applica criteri propri. L’effetto sono le straordinarie differenze di attribuzione dei voti di maturità e di laurea tra Nord, Centro, Sud. E’ rimasta solo l’omogeneità burocratico-formale del titolo legale. Il tentativo di introdurre sistemi di valutazione esterni per gli insegnanti, per i dirigenti scolastici, per i docenti universitari sono stati finora contrastati, respinti, dimezzati.

Il dato di fatto clamoroso è che l’equipollenza legale dei titoli di studio copre diseguaglianze estreme del valore reale. Ora, trattare in modo eguale livelli di preparazione diseguali è somma ingiustizia. Ecco perché il valore legale del titolo di studio va abolito. La scuola e l’Università possono/debbono solo certificare l’itinerario di conoscenza/competenza effettivamente percorso dal singolo. A chi assume spetta il giudizio, in relazione al posto di lavoro che il singolo è chiamato ad occupare. Ciò tanto nel pubblico quanto nel privato.

L’abolizione del valore legale fa esplodere le diseguaglianze? No, semplicemente le rivela! La società, l’economia, le famiglie, i ragazzi hanno diritto di conoscere l’offerta formativa reale, non coperta dal pietoso velo burocratico del valore legale dei titoli. E’ la fine di un inganno.

L’abolizione del valore legale favorisce le scorciatoie dell’ignoranza, perché non obbliga più a diplomarsi o a laurearsi? Al contrario: mette chi cerca lavoro e chi lo offre di fronte alla dotazione reale di conoscenze/competenze. Può favorire forme di clientelismo, di reclutamento amicale? E’ possibile. Anzi accade già! L’antidoto consiste nel valutare sia il lavoro dell’assunto sia il lavoro di chi lo ha assunto. In economia, valuta il mercato. Nello Stato? Occorre procedere ad istituire parametri e procedure di valutazione severa. Qui si vede la forza o, meglio, la debolezza della politica nella difesa degli interessi dei cittadini.

 

 

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