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di Stefano Ceccanti

 

Intervento in aula sul decreto sicurezza, 26 novembre 2018 (qui il video)

 

Presidente, a inizio legislatura c’era stata promessa dal Presidente Fico una Camera centrale; qualunque cosa questo volesse dire, che è un concetto passepartout, ci ritroviamo un qualcosa di diverso: una Camera passacarte.

Questa è la nostra condizione di oggi: una Camera passacarte, un equivalente istituzionale del ragionier Fantozzi.

Sono tre i passaggi che hanno squalificato il ruolo del Parlamento in questo periodo recente.

Il primo, e di gran lunga più grave, è stato il fatto che dei parlamentari – mi auguro non rendendosi conto fino in fondo di quello che hanno fatto – si siano trasformati in claque per il Governo sotto il balcone di Palazzo Chigi. Si può avere scelto un rapporto positivo con il proprio Governo, ma qui siamo oltre qualsiasi eccesso di zelo; “soprattutto non troppo zelo” diceva il Talleyrand, e vale anche soprattutto per i parlamentari.

Il secondo aspetto negativo, che abbiamo vissuto la scorsa settimana, è di collocare i partiti, che sono una delle infrastrutture alla vita democratica – con tutte le loro imperfezioni sono comunque una delle infrastrutture alla vita democratica e della democrazia rappresentativa – sotto il capitolo anticorruzione, una scelta ideologica che non rende merito di come deve funzionare la nostra democrazia.

Oggi invece siamo a un terzo passaggio, che si iscrive sempre in questa logica, confermando una serie di trend piuttosto negativi su cui il Comitato per la legislazione, nella sua nota n. 1, ci ha illuminato. Cosa ci ha detto il Comitato per la legislazione? In primo luogo che nel primo semestre della nostra attività parlamentare le leggi di conversione di decreti, che nel primo semestre della scorsa legislatura avevano pesato per il 52,9 per cento della produzione legislativa, sono diventati l’81,8 per cento della nostra produzione legislativa: quattro quinti delle leggi del primo semestre sono state leggi di conversione dei decreti. Secondo aspetto: si assiste a una genesi sempre più confusa e oscura dei decreti-legge. Mentre nel primo semestre della scorsa legislatura l’intervallo massimo tra la deliberazione del Consiglio dei ministri e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale era di sei giorni, ora è diventato di 11; nel decreto in questione i giorni di intervallo sono stati 10. Ma soprattutto, si nota una riduzione molto stringente dei passaggi parlamentari. Perché ci sia un minimo di fisiologia, i passaggi parlamentari dovrebbero essere almeno tre, cosicché ciascuna delle Camere possa apportare almeno teoricamente degli emendamenti. Ora, viceversa, in questa legislatura si è affermata la norma che i passaggi siano solo due. Ripeto anche qui i dati, che si trovano facilmente nell’appunto del Comitato per la legislazione: nel primo semestre della legislatura precedente, in cinque casi su nove, quindi nella maggioranza dei casi, i passaggi erano stati tre, ed entrambe le Camere avevano modificato il testo; nei nove decreti di questo inizio legislatura, otto su nove hanno avuto due passaggi soli, ovvero sia, in otto casi su nove la Camera che ha lavorato per seconda si è trovata solo a fare da passacarte, il che è ancora più grave, in caso di legittimazione democratica, quando a fare da passacarte sia questa Camera, perché questa Camera è l’unica eletta davvero a suffragio universale, mentre al Senato gli elettori tra 18 e 25 anni non votano, quindi è ancora più grave trasformare in passacarte la Camera che è eletta dall’insieme del suffragio universale. Per di più, se noi andiamo a vedere il merito, i due decreti comparabili per merito, in materia di giustizia, della scorsa legislatura, avevano tutti e due, il n. 78 del 2013 ed il n. 90 del 2014, avuto tre passaggi e non due. È anche ulteriore indicatore di questo ruolo di compressione del Parlamento la riduzione del numero di emendamenti approvati. In questo caso, gli emendamenti approvati al Senato sono stati settantotto; nel primo semestre della scorsa legislatura il “decreto del fare” ebbe la bellezza di 212 emendamenti, quindi meno emendamenti in sede parlamentare, più confusione nella genesi, più compressione delle letture, espansione delle leggi di conversione sull’insieme.

Questo è un Parlamento, appunto, passacarte; non è minimamente centrale da qualsiasi punto di vista lo si voglia affermare. Fa eccezione, per fortuna, in questo panorama molto triste, il Comitato per la legislazione, non solo per questo appunto meritorio che ha pubblicato, ma anche perché, all’unanimità, ha presentato un emendamento in questa sede ringrazio tutti i colleghi in particolare la Presidente Dadone, per la sensibilità istituzionale, per cercare di espungere dall’articolo numero 1 della legge di conversione le due deleghe inserite in maniera anomala. Dopodiché, io mi sono sentito dire stamani due cose dalla collega Corneli. Un primo argomento, che si riduce a quello che classicamente chiamiamo la «prova budino», non si sa se una cosa è buona o cattiva finché non l’abbiamo sperimentata nell’implementazione: vediamo laicamente cosa succede, poi la correggiamo. Solo che la «prova budino» si può sostenere teoricamente solo se uno pensa che una normativa abbia delle contraddizioni interne, non se sia negativa. Se noi partiamo dal presupposto, come in parte lei stessa ha detto, che la norma è negativa, il budino non va proprio mangiato, non va approvato, non va cucinato. Questa prova di laicità di vedere gli effetti si riserva alle cose che sono in partenza ambigue o pluriformi, non a quelle che sappiamo essere negative.

Devo dire ancora più sconcertante, anche se intellettualmente onesta, è la parte finale di quello che ha detto la collega Corneli, la traduco dal suo lessico più diplomatico: noi sappiamo che alcune di queste cose non solo sono sbagliate, ma sono incostituzionali e, quindi, invitiamo la Corte a bocciarcele, mentre noi, nel frattempo, la votiamo. Ora, io non ho una concezione individualistica della rappresentanza politica. Tutti noi sappiamo che le democrazie parlamentari funzionano sulla base di una disciplina di gruppo, di una disciplina di maggioranza, però la disciplina di gruppo, la disciplina di maggioranza possono arrivare fino a norme che io considero sbagliate, ma non possono arrivare fino a norme incostituzionali. Se io ho coscienza che una norma è incostituzionale non posso votarla per disciplina di gruppo, disciplina di maggioranza. Qui ci deve essere un limite, perché altrimenti noi facciamo della disciplina di gruppo un qualcosa che va persino al di là della costituzionalità del testo. Ricorda un po’ quel trucco a cui ricorrevano i cattolici intransigenti poco prima e poco dopo la presa di Roma per assumere incarichi pubblici nell’amministrazione dello Stato risorgimentale che loro non approvavano. La Sacra penitenzieria li aveva autorizzati ad assumere questi incarichi pubblici se, di fronte a due testimoni, proclamavano la formula: salve le leggi divine ed ecclesiastiche, che facevano regolarmente annotare, solo che ci fu un parlamentare che lo fece nelle Aule del Parlamento, un parlamentare della Val d’Aosta che, però, siccome lo fece in pubblico davanti al Parlamento, fu dichiarato decaduto. Ora, mi sembra che dire queste cose, cioè sapere che si votano delle norme incostituzionali, con l’onestà intellettuale di chi lo ammette che siano incostituzionali, ma poi le vota, mi fanno un po’ ricordare la scusa di don Abbondio davanti al cardinale, quando gli si chiede perché non aveva celebrato il matrimonio e lui aveva risposto: il coraggio, chi non ce l’ha, non se lo può dare. Un po’ più di coraggio forse, di fronte a norme incostituzionali non sarebbe guastato (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

 

 

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