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di Ileana Piazzoni

 

Da molto tempo, ormai, assistiamo a una discussione confusa relativamente a una riforma fondamentale del nostro sistema di welfare: l’introduzione del reddito minimo. Negli ultimi giorni abbiamo raggiunto l’apice, con una sfilza di commenti surreali sul Piano contro la povertà presentato da Macron, che nessuno in Italia pare si sia curato di leggere.

 

Il reddito minimo: perché in Italia non si è mai proceduto a introdurlo?

Per spiegare come siamo arrivati a questo punto, è necessario ripercorrere brevemente le vicende di questa particolare misura di welfare: il reddito minimo è presente in tutti i Paesi dell’Unione Europea, introdotto in alcuni già a partire dal dopoguerra e in altri in tempi più recenti.

Solo l’Italia e la Grecia, fino all’anno scorso, non se ne erano dotate, anche se le forme della misura hanno caratteristiche diverse da paese a paese e per quelli dell’Est Europa si tratta di interventi minimali.

Inoltre, per una comparazione adeguata del livello di protezione sociale, non andrebbero considerate solo la presenza o meno del reddito minimo e le sue caratteristiche, ma l’intero sistema di welfare. Tuttavia, non c’è dubbio che si tratti della misura pilastro del modello europeo di welfare, sancito nella Carta di Lisbona e in tutti gli atti dell’UE, con molte raccomandazioni indirizzate ai paesi membri, e che la sua assenza sia stata causa del maggior impatto della crisi economica nei paesi che ne erano sprovvisti.

Perché in Italia non si è mai provveduto ad introdurlo? Le ragioni sono tante: possiamo ipotizzare che nel nostro modello di welfare, particolaristico e clientelare, ci sia stato spazio solo per le misure sostenute dalle rappresentanze corporative, e i poveri in quanto tali non ne hanno mai avuta una.

Tuttavia, negli ultimi 20 anni se n’è discusso molto e si sono avute alcune sperimentazioni, a livello regionale e una anche a livello nazionale. Ma sono tutte naufragate, per la difficoltà di attuazione e la contrarietà ideologica di buona parte delle forze politiche e sociali (anche di schieramenti opposti).

E così si è giunti alla crisi economica senza un sistema di protezione sociale adeguato. L’effetto è stato un raddoppio del numero delle persone situate sotto la soglia della povertà assoluta, e un cambiamento profondo nella diffusione della povertà: non più solo al sud, ma anche nel centro e nel nord del Paese, non più gli anziani (protetti dal sistema pensionistico e dall’unica misura di reddito minimo esistente: l’assegno sociale) ma i giovani, soprattutto se con figli minori.

 

Il Reddito di Inclusione: una conquista dei governi della sinistra liberale

Questa nuova situazione, insieme con l’insistenza dell’Unione Europea, l’arrivo al governo della sinistra liberale (favorevole alla modifica del sistema di welfare nel senso della flexsecurity) con Renzi prima e Gentiloni poi, l’organizzazione della società civile in un’Alleanza contro la povertà, dotatasi di esperti della materia, hanno portato finalmente alla nascita nel 2017 del Reddito di Inclusione, la prima misura universale e nazionale di contrasto alla povertà.

L’avvio ha seguito un’impostazione di gradualità, cosa che non rispondeva pienamente e celermente all’esigenza diffusa di sostegno, ma mediava questa urgenza con l’inadeguatezza dell’apparato preposto a mettere in campo efficaci interventi per la fuoriuscita dalla condizione di povertà, e ad attuare gli indispensabili controlli per evitare la dispersione delle risorse verso chi mette in atto comportamenti scorretti (lavoro nero, evasione fiscale).

Sono state stanziate molte risorse per rafforzare i servizi sociali territoriali e per mettere in campo validi progetti di inclusione, ma solo ora si iniziano a vedere i primi miglioramenti.

 

La mistificazione del M5S

Mentre faticosamente si portava avanti questo lavoro, però, il tema era già stato brandito da una nuova forza politica, il M5S, che si presentava come portatrice di una proposta molto innovativa: il reddito di cittadinanza, vale a dire il reddito di base, uno strumento su cui nel mondo si dibatte da molto tempo, pur non essendo mai stato realizzato in nessun paese.

I sostenitori del reddito di base (o di cittadinanza) sostengono che gli attuali sistemi di welfare richiedono troppi controlli e troppi costi per l’apparato di operatori sociali disperdendo così risorse, e che meglio sarebbe dotare tutti i cittadini di uno stesso trasferimento economico per tutta la vita, affidando i servizi al mercato. E’ dunque un sistema alternativo all’attuale modello sociale europeo.

A complicare le cose, però, emerse ben presto che la proposta del M5S depositata agli atti, pur chiamandosi “reddito di cittadinanza”, puntava in realtà a introdurre un sistema di reddito minimo, estremamente ampio e generoso, generando da subito una grandissima confusione nel dibattito pubblico.

Oggi che il M5S è al governo la confusione è ancora più grande, poiché è stato più volte dichiarato che la proposta depositata nella passata legislatura non è quella che vedrà attuazione poiché chiaramente insostenibile e senza copertura (!), e a nessuno è dato conoscere di cosa si tratterà effettivamente.

 

Un sistema dei media poco attento

Nel frattempo, grazie alla compiacenza di un sistema mediatico poco attento, si è dato vita a una mistificazione senza precedenti: il vice Premier Di Maio si è potuto permettere di dire: “Sono contento che Macron abbia deciso di seguire la linea che il M5S ha iniziato a tracciare, annunciando l’istituzione del Reddito di Cittadinanza anche in Francia…Spero che anche gli altri Paesi UE inizino a mettere al primo posto gli interessi dei cittadini più deboli”, senza che fosse sommerso dalla risate o dall’indignazione.

Anzi, la maggior parte dei Tg ha annunciato che Macron sta per fare il reddito di cittadinanza e un’autorevole firma del Corriere della Sera, Pierluigi Battista, ha twittato: “Ma perché se Macron fa il reddito di cittadinanza o come si chiama, nessuno protesta?”. Al noto “giornalista” non è venuto in mente, evidentemente, di verificare cosa stesse facendo davvero Macron (bastava una breve ricerca con Google).

 

Il piano povertà di Macron

Macron in realtà ha presentato un piano di contrasto alla povertà che si basa essenzialmente su un punto, affrontato da quasi tutti i paesi europei (ma non dall’Italia), nel corso degli ultimi 25 anni: adeguare il sistema di welfare ai nuovi bisogni sociali. Se la società cambia e il sistema di welfare no, si rischia di spendere risorse in modo inefficace. Che è quello infatti che succede in Italia.

Ha spiegato Olivier Noblecourt, delegato interministeriale del governo francese alla prevenzione e alla lotta alla povertà dei bambini e dei giovani: “Il nostro sistema sociale, con molte prestazioni monetarie, ha permesso di stabilizzare la povertà anche in caso di crisi, ma non di rovesciare il destino dei giovani più colpiti e di rompere la riproduzione della povertà”.

In Italia non potremmo dire lo stesso: il nostro sistema sociale non ha permesso nemmeno di contenere la diffusione della povertà, e quindi per noi, nella scorsa legislatura, la sfida è stata ancora più ardua, considerando anche la scarsa disponibilità di risorse a causa del debito pubblico “monstre” e una fortissima e diffusa resistenza al cambiamento. Non a caso, Anais Ginori su La Repubblica ha attaccato Macron accusandolo di non investire nuove risorse ma di limitarsi a riorganizzare l’esistente. A parte l’inesattezza della tesi, si dà per scontato che una riforma abbia senso solo in presenza di risorse aggiuntive, come se la spesa fosse espandibile all’infinito, e non nella trasformazione di misure inefficienti o inefficaci.

In realtà, il piano presentato da Macron è molto lungimirante, perché mette al centro l’intervento sull’infanzia, il momento in cui è davvero possibile cambiare il corso della vita, investendo su reali pari opportunità di formazione delle skills necessarie ad affrontare la vita e il mondo del lavoro, e in cui è più facile favorire l’integrazione di nuovi cittadini provenienti da paesi e culture diversi.

L’altro filone di intervento del piano Macron è quello che tutti i paesi hanno già affrontato: gli schemi di reddito minimo nati nel primo dopoguerra (su impulso di Beveridge) operavano in regime di piena occupazione, erano dunque residuali e molto orientati al sostegno al reddito.

Successivamente, si sono trasformati nella direzione di una maggiore capacità di rendere il beneficiario autonomo dalla dipendenza dal welfare; infine negli ultimi 15 anni hanno introdotto come finalità fondamentale l’inclusione sociale e l’inserimento attivo del beneficiario nella vita sociale e occupazionale del Paese: è l’impostazione del modello sociale europeo dopo il Consiglio di Lisbona del 2000.

Questa impostazione ha portato a una maggiore condizionalità e a maggiori controlli, provocando da parte di alcune frange politiche l’accusa di eccessiva restrizione della protezione sociale (ma se si può capire che Schröder, Blair e gli altri leader abbiano subito questa accusa da parte dei loro connazionali, abituati a un regime di sussidi molto ampio, è invece piuttosto singolare che le subiscano da parte di chi in Italia ha sempre difeso un sistema che disperde risorse verso reddito medio-alti non riservando nulla ai veri poveri).

La Francia, paese più simile all’Italia di quanto non lo siano la Germania, la Gran Bretagna e i paesi scandinavi, ha introdotto il reddito minimo nel 1988. Lo strumento era già stato profondamente modificato nel 2009. Ma secondo il governo francese il sistema resta troppo incentrato sui trasferimenti monetari, investendo poco sui percorsi di inclusione e attivazione, ed è troppo complesso e frammentato. Il governo francese si propone quindi di procedere all’unificazione e semplificazione di alcune misure, creando una misura veramente universale (vale a dire rivolta a tutti, e non a particolari categorie) seppur condizionata (al livello di reddito e alla disponibilità ai percorsi di attivazione). Il piano, infine, aggiunge – come detto – un’attenzione specifica alla prima infanzia.

 

L’Italia in direzione ostinata e contraria 

Mentre dunque il governo francese decide di investire di più sull’inclusione sociale, fornendo un sostegno finanziario alle comunità locali per questo delicato lavoro, in Italia il governo Conte pensa di modificare il reddito di inclusione nella direzione di estromettere dalla gestione i servizi sociali comunali, quelli che per decenni hanno in solitudine affrontato le emergenze sociali, sviluppando l’unico know-how esistente in Italia sul tema insieme a quello delle organizzazioni sociali del Terzo Settore.

Il nuovo strumento verrebbe infatti affidato ai Centri per l’impiego, che notoriamente non sono in grado di gestire nemmeno la sola parte delle politiche attive. E’ davvero difficile immaginare che la loro situazione possa cambiare con un investimento di 2 miliardi (ben vengano!) per renderli perfetti emuli dei job center tedeschi in soli 4-5 mesi. Ma anche qualora recuperassero miracolosamente efficacia nell’attività di reinserimento lavorativo, producendo continue offerte di lavoro che costringerebbero i beneficiari del reddito di cittadinanza, dopo tre rifiuti, a accettare il lavoro (purché entro i 50 km da casa) o andare incontro alla perdita del sussidio (come dice l’originaria pdl del M5S), non si vede come possano gestire tutti gli altri interventi di inclusione. Più probabilmente questa parte verrebbe meno.

 

Con il M5S rischi di disastro finanziario e disincentivazione al lavoro

Insieme a tutto ciò, non può non allarmare l’annunciata ipotesi di livello di trasferimento monetario, coincidente con il 60% del reddito mediano, soglia da cui le misure di tutti i paesi della Ue sono ben lontani.

Si tratterebbe di 780 euro al mese a persona e di circa 1600-2000 euro al mese per i nuclei famigliari più numerosi. Qui il problema non è solo e tanto quello di trovare queste risorse nel magro bilancio dello Stato.

E’ noto che la sostenibilità e l’efficacia delle misure di reddito minimo risiedono principalmente nella loro capacità di non generare disincentivazione al lavoro, e questo anche nei paesi in cui l’economia sommersa, il lavoro nero, sono quasi sconosciuti. E’ del tutto evidente che se il reddito di cittadinanza venisse effettivamente attuato come descritto qui e là dal M5S, andremmo incontro rapidamente a un disastro finanziario per lo Stato, con il rischio di mettere una pietra tombale sopra lo strumento reddito minimo, che invece è fondamentale, se ben attuato.

Essendo, con la Grecia, l’ultimo Paese dell’Ue a introdurlo, abbiamo avuto un grande vantaggio: poterci basare sull’enorme esperienza sviluppata nel corso di tanti decenni da tantissimi paesi. E’ quello che abbiamo fatto nel disegnare il REI. Invece ora si procede senza alcun interesse per una puntuale verifica degli effetti della sua applicazione, senza nessuna comparazione con le lunghe e preziose esperienze altrui, seguendo misteriosi schemi teorici dispensando bacchettate agli altri paesi europei. Con quale considerazione ci possano guardare, non è difficile immaginarlo.

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