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Il referendum rafforza Conte. Ma l’Europa chiede svolte reali

Michele Marchi martedì 22 Settembre 2020
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di Michele Marchi

 

Affluenza buona, risultato netto. Queste le prime due indicazioni che giungono dal voto referendario sulla riduzione del numero dei parlamentari. Nei prossimi giorni si analizzeranno i flussi elettorali, per incrociarli con le scelte di voto operate dagli elettori chiamati alle urne anche per il voto regionale. Al momento si può rilevare che i “sì” hanno superato la soglia del 70% in otto regioni (sette del sud) e quella ancora più alta del 75% in sei regioni, Puglia, Molise, Campania, Abruzzo, Basilicata, Calabria e Sicilia, aree più grilline che rosse, almeno nel recente passato elettorale.

Se su questo ci sarà tempo per “speculare”, può essere di qualche interesse tentare una lettura “europea” del voto referendario. In questo caso occorre prima di tutto non fermarsi ad una interpretazione puramente deterministica e provare a delineare qualche scenario.

Come prima lettura si può senza dubbio affermare che da Bruxelles l’esito del referendum è guardato con sollievo: il governo Conte è al sicuro. O perlomeno probabilmente solo un 6-0 (Valle d’Aosta esclusa) tennistico alle regionali potrebbe riaprire il discorso sulla tenuta dell’alleanza giallo-rossa. Secondo questa interpretazione il vero vincitore del referendum è Giuseppe Conte, il Cunctator per eccellenza di questa stagione politica italiana, che non a caso si è esposto solo all’ultimo respiro, dopo che i capi di partito della sua maggioranza avevano messo a rischio le loro leadership proprio nel sostegno al “sì”, in particolare il segretario Pd Zingaretti.

E proprio Di Maio e Zingaretti sono i vittoriosi “osservati speciali” del dopo referendum. Per entrambi, in attesa dell’esito delle regionali (un’incognita più per Zingaretti che per Di Maio, almeno in base ai sondaggi ed exit-poll), si aprono prospettive interessanti, ma anche ricche di insidie potenziali.

Occorre ricordare che l’attuale ministro degli Affari Esteri, seppur “normalizzato” da oltre un anno di governo giallo-rosso, resta il capo-popolo ricevuto dalle frange più oltranziste dei gilets jaunes, l’ex alleato di Salvini e il capo del partito che ha flirtato non poco con l’UKIP e tutto ciò non nello spazio di un decennio, né tanto meno un lustro fa. Insomma, un Di Maio rafforzato, che possa parlare di “risultato storico” e di conseguenza sia in grado di rintuzzare l’avanzata della leadership di Di Battista, può non dispiacere in giro per l’Europa e a Bruxelles. Ma allo stesso tempo un governo giallo-rosso, a trazione “gialla”, non fa dormire sonni tranquilli agli stessi ambienti continentali.

E qui si passa per forza di cose al fronte PD. La vittoria del “sì” è una salutare boccata d’ossigeno per il segretario Zingaretti e per quella corrente “riformista” del partito, emblematicamente rappresentata dal costituzionalista Stefano Ceccanti, il quale si è speso in maniera generosa per tracciare un filo, sottile quanto resistente, tra l’occasione perduta del 2016 e l’attuale referendum, quest’ultimo da leggersi come primo fondamentale passo per la ripartenza di una stagione di indispensabili riforme istituzionali.

Proprio l’interpretazione della battaglia referendaria offerta da Ceccanti condensa al suo interno le principali aspettative che per l’ennesima volta, da circa quarant’anni, le principali cancellerie europee mostrano guardando all’Italia e al suo mix sclerotizzato di volontà di semplificazione e modernizzazione del proprio sistema istituzionale ed incapacità cronica di giungere ad un risultato anche minimo. Fine del bicameralismo paritario, primato dell’esecutivo (presidente della Repubblica o capo del Governo?) unito ad un vero ruolo di controllo e produzione legislativa da parte del Parlamento, reale decentramento amministrativo e non regionalismo leaderistico sono solo tre dei passaggi attraverso i quali il nostro Paese dovrebbe “europeizzarsi” anche da un punto di vista del funzionamento delle proprie istituzioni.

Dalla Commissione Bozzi del 1983 a quella D’Alema del 1997, passando per quella Iotti-De Mita del 1992, per la Grande Riforma di craxiana memoria, senza naturalmente dimenticare la già citata riforma Boschi-Renzi del 2016, l’Italia ha mostrato ai vicini europei la sua cronica incapacità di chiudere una transizione istituzionale che si è trascinata parallelamente a quella giudiziaria e a quella, complessiva, politica.

Se vi è un trait d’union tra i fittizi passaggi dalla prima alla seconda e addirittura alla terza Repubblica, fuochi fatui perché in realtà non si è verificato nessun reale cambio di regime, è possibile proprio individuare i costanti fallimenti del riformismo istituzionale.

Può suonare provocatorio affermare che il completamento delle riforme istituzionali sia, per il nostro Paese, un nuovo imperativo europeo, all’insegna del classico “ce lo chiede l’Europa”. Se però al “sì” netto alla riduzione del numero dei parlamentari non dovesse seguire un processo organico di riforma istituzionale, allora probabilmente a Bruxelles, quanto nelle principali cancellerie europee, il dubbio comincerebbe legittimamente ad insinuarsi. E forse questo “sì” finirebbe per essere interpretato soltanto come denuncia e demolizione nei confronti di una delle componenti fondamentali del liberalismo politico, il Parlamento appunto. E in questo caso ci sarebbe poco da esultare. Perché in nome della stabilità e della lotta contro i sovranismi anti-europei, cioè per essere più espliciti per tenere in vita il Conte-bis, si sarebbe finito per accreditare un altrettanto pericoloso populismo anti-parlamentare, anti-elitario e genericamente anti-politico.

Insomma, l’Europa osserva benevola, ma sul Recovery Fund come sulle riforme istituzionali, dopo le belle parole attende svolte reali.

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