LibertàEguale

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di Carlo Fusaro

 

1. Il referendum sulla riduzione dei parlamentari non avrebbe dovuto esserci. Se solo il governo Conte I fosse andato a casa qualche settimana prima, il Pd avrebbe votato a favore anche al Senato e non solo alla Camera, in coerenza con tutta la storia sua e dei partiti che l’hanno preceduto, da sempre favorevoli a ridurre il numero dei parlamentari. Alla Camera infatti il voto è stato quasi unanime: 553 su 569 presenti e su 630 complessivi. Una delle revisioni costituzionali più votate della storia. Anche al Senato era passato a larga maggioranza (180 su 321): ma non i due terzi che non consentono referendum.

2. Inoltre è stato il primo referendum dei quattro costituzionali (2001, 2006, 2016, 2020) indetto su richiesta NON degli elettori, NON delle Regioni ma di solo senatori, e di senatori a titolo personale: perché i loro gruppi – tutti – avevano votato per la riduzione. E’ per questo che si è trattato di un referendum NON contro il presunto sopruso di una maggioranza che aveva imposto una riforma, ma contro l’intero Parlamento. Un referendum antiparlamentare e – esso sì – populista. Aver denunciato ciò mi ha procurato molte indignate levate di scudi (a partire dal deputato europeo eletto nel Pd, poi fondatore di Azione, Carlo Calenda): ma è così.

3. E’ dunque un referendum oppositivo per eccellenza: contro non una maggioranza che prevarica, ma contro tutto il Parlamento. Del resto chi meglio dei parlamentari medesimi poteva valutare l’opportunità, da sempre segnalata, di rendere più snelle le due Camere? Che senso ha avuto chiamare gli elettori su una questione così secca e puntuale, in linea con quello che avviene altrove e anche con le indicazioni della teoria delle organizzazioni (organi pletorici funzionano peggio: come è evidente a tutti, basta il buonsenso)? Si è letteralmente inventata artificiosamente una divisione che non c’era.

4. Se si guarda alla campagna del «no» emergono con evidenza le ragioni del «SI’». Ancor di più se si guarda a chi ha condotto questa variegata campagna, e come: a volte con argomenti degli uni che contraddicevano quelli degli altri, tutti con una fantasia e una capacità di inventiva degna di miglior causa. Perché la legge di revisione è di una disarmante semplicità: essa riduce di poco più di un terzo, proporzionalmente, i deputati e i senatori. E BASTA. I deputati da 530 diventano 400; i senatori elettivi da 315 diventano 200. NULL’ALTRO CAMBIA.

5. I fautori del no han parlato di “salto nel buio”, con ineffabile faccia tosta. Hanno paventato le conseguenze più imprevedibili e infondate, con argomenti spesso demagogici e irrispettosi delle istituzioni politiche (“i capipartito” controlleranno più facilmente meno parlamentari; meno parlamentari saranno più facilmente preda delle lobbies e così via). Pochi argomenti non irragionevoli (o che non valgono pari pari per il Parlamento di oggi a 945) sono stati sollevati.

6. Si è sostenuto che – specie il Senato – con 200 membri elettivi “non può funzionare” o “funzionerebbe peggio”. Si sono evocate le 14 commissioni attualmente esistenti. Si è detto che chissà se il regolamento del Senato sarebbe stato cambiato, contro ogni esperienza precedente, peraltro. Come se non fosse agevole adeguarlo invece ai nuovi numeri, volendo. Come se non ci fossero tre anni per farlo! Come se non fosse possibile (ed anzi comunque opportuno) ridurre un numero di commissioni permanenti che non ha pari al mondo. Come se il Senato dovesse necessariamente funzionare al ritmo del gruppo più piccolo esistente (dieci senatori, pari al 5% dell’assemblea). Come se i 122 parlamenti al mondo su 193 censiti dall’Unione Interparlamentare che hanno MENO di 200 componenti fossero tutti organi non in grado di funzionare! O come se il nostro Senato fosse l’unico a non poterlo e saperlo fare.

7. Si è sostenuto che la rappresentanza avrebbe subito chissà quali ferite. Ma in realtà quella territoriale è pienamente preservata con sovrarappresentazione anche dopo la riduzione delle regioni più piccole (come oggi, ma un po’ meno). Quella partitica pure: unica conseguenza, potendo essere che i partiti piccoli (dal 10% in giù, diciamo) non potrebbero vedersi assegnare alcuno dei 44 seggi che complessivamente toccano alle regioni piccole, ma potrebbero ben partecipare all’attribuzione dei 152 seggi delle altre e più grandi regioni. Che male c’è? Come possiamo alimentare un sistema che debba garantire – che so – a un partito del 4-5-6% non solo la legittima rappresentanza parlamentare, ma anche una rappresentanza in ogni regione? E poi già adesso è così e se a questo si volesse provvedere i parlamentari andrebbero raddoppiati, e forse non basterebbe.

8. Lo stesso discorso vale per le realtà locali (= territori). Mi son sentito obiettare: con la riduzione la Versilia (o due municipi di Roma specifici) non avranno più i “loro” parlamentari. Ma a parte che rappresentanti nazionali dobbiamo eleggere e per i localismi ci sono i consiglieri locali e regionali, è chiaro che tutto questo dipende dalla legge elettorale. Se istituissimo 400 + 200 collegi uninominali dove una certa area esprime un deputato e/o un senatore, il problema sarebbe risolto. Ma i fautori del «no» sono tutti contro l’uninominale e per la proporzionale più integrale possibile! E non si può conciliare rappresentanza territoriale garantita e proporzionalità politica garantita. Delle due l’una, o un compromesso. Chi si preoccupa della Versilia, per dire, dovrebbe preoccuparsi, se mai, di una legge elettorale proporzionale con preferenze: perché le preferenze stanno dove sta più popolazione e nessuno potrà mai garantire che venga eletto uno/a della Versilia.

9. La campagna del «no» si è però incentrata per lo più su un argomento ossessivamente ripetuto: questa riduzione è figlia del M5S e della lotta contro la casta. Basta! facciamo vedere che di ciò siamo stanchi e diamogli una lezione. E difendiamo il Parlamento. Ora a parte il paradosso di pretendere di difendere il Parlamento… da sé stesso, a parte il fatto che la riduzione è una esigenza nata decenni fa con proposte di ogni genere sia organiche sia puntuali ben prima che il M5S nascesse, a parte il fatto che non è affatto vero che essa oggi si inserisca in una serie di criticabili progetti del M5S (referendum propositivo, mandato imperativo, ormai finiti in un cassetto), non è che una cosa giusta e utile, patrimonio da sempre della sinistra, diventa qualcosa da respingere solo perché ANCHE il M5S, buon ultimo (e con pessimi argomenti) l’ha fatta propria.

10. Chi ha fatto dibattiti e confronti si è poi reso conto di come una parte del «no» anche a sinistra, specie a sinistra anzi, è stato un «no» genuinamente reazionario: ancora ieri il giovane deputato siciliano Raciti (uno di quei gentiluomini che hanno votato «sì» alla Camera per poi far campagna per il «no»! in campagnia con Matteo Orfini) spiegava che si trattava col «no» di invertire la tendenza apertasi con la riduzione dei consiglieri comunali e regionali (governi Berlusconi e Monti), con la sostituzione del finanziamento pubblico ai partiti con il 2/1000 (governo Letta) e financo con l’abolizione dell’elezione diretta degli organi provinciali.

11. Nessuna sorpresa: basti vedere l’improvviso risveglio di tutto un mondo (in parte dignitoso, in parte meno) di reduci della Prima repubblica. Tutti rianimatisi di botto in una formidabile campagna contro la riduzione: vecchi Dc, vecchi socialisti, vecchi reduci dei partiti più piccoli ed anche alcuni vecchi comunisti. Rispettabili signori da Bobo Craxi a Gerardo Bianco, passando per l’Associazione ex parlamentari, uniti nella lotta a fianco dei 71 senatori vogliosi questi, in ultima analisi, con rare eccezioni, di difendere le proprie personali sorti in politica.

12. Perché in ultimo questo va detto: 345 parlamentari in meno non sono tanto un risparmio finanziario (c’è, meno piccolo di quel che si va calcolando, Cottarelli compreso), non sono solo un risparmio in termini di migliore potenziale funzionalità, sono soprattutto un atto di coraggio del Parlamento nel tentativo di ristabilire un rapporto con un’opinione pubblica ragionevolmente sfiduciata e lontana che pretende come minimo una politica più sobria. Autoriducendosi come classe politica di vertice mantenuta a spese dei cittadini, i partiti di questa legislatura hanno fatto un gesto che non andrebbe sottovalutato: e che è il contrario della resa al populismo. E’ uno dei pochi modi di far capire ai cittadini che il messaggio è arrivato e che ci si impegna (tutti i partiti, tutti i gruppi), a quella maggiore sobrietà. E magari a qualche ulteriore innovazione utile, in attesa che maturino le condizioni per riforme più incisive ed organiche (di cui si sono riscoperte improvvisamente le virtù).

13. Tornando a bomba: domani e dopodomani si può serenamente VOTARE SI’: solo qualche vantaggio (nulla di spettacolare), solo più sobrietà, svantaggi zero. Salvo per un ristrettissimo gruppo di politicanti, quelli della richiesta referendaria, quelli che dopo aver votato sì o presentato progetti di riduzione uguali identici si son buttati a far campagna per il «no». O ci ingannavano prima o ci ingannano ora. Un «sì», perciò, che sia anche una lezione di moralità ai voltagabbana.

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