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La riduzione dei parlamentari: un piccolo passo nella giusta direzione

Giorgio Tonini lunedì 7 Settembre 2020
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di Giorgio Tonini

 

Nella sua universalmente apprezzata “Lectio degasperiana”, tenuta a Pieve Tesino il 18 agosto scorso, la presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, ha utilizzato il binomio “realismo lungimirante” come chiave interpretativa del metodo storico-politico del grande statista trentino. Anziché contenderci una eredità che è patrimonio di tutto il paese, penso che dovremmo provare tutti a praticare questa virtù degasperiana: come ogni buon montanaro, tenere i piedi ben piantati sulla terra e procedere, un passo sicuro dopo l’altro, con l’animo proteso verso la meta.

Credo che dovremmo applicare questo metodo anche al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. È realismo riconoscere che il taglio non è sufficiente a rilanciare il ruolo e il prestigio del Parlamento.

Ma è realismo anche riconoscere che, dopo la bocciatura di due proposte organiche di riforma costituzionale e in un quadro politico così incerto e fragile, non ci sono le condizioni per un nuovo tentativo di revisione complessiva. Non si può che procedere per piccoli passi, attraverso intese parlamentari le più ampie possibili.

La domanda giusta da porsi allora è la seguente: il passo che il Parlamento, a larga maggioranza, ci propone di compiere il 20 e 21 settembre, votando Sì, va nella giusta direzione, ci avvicina alla meta di un Parlamento più efficiente e più autorevole? La mia risposta è positiva: penso che la riduzione del numero dei parlamentari sia un passo certamente piccolo e insufficiente, ma nella giusta direzione. Sia cioè un atto di “realismo lungimirante”. E per questo meriti il nostro Sì al referendum.

Mi sento di affermare questo mio convincimento sulla base di un riferimento sicuro: l’Europa, stella polare per noi riformisti, umilmente degasperiani. Ebbene, non esiste nessun paese europeo che abbia un numero di parlamentari paragonabile al nostro: 945 più i senatori a vita, per 60 milioni di abitanti. Per affermare il contrario, i sostenitori del No sono costretti a ignorare il nostro Senato, limitando il confronto alle sole, cosiddette Camere basse (la nostra Camera dei deputati col Bundestag tedesco o la Camera dei comuni inglese), oppure a fingere che il Senato sia la nostra Camera dei Lord. Il problema è che nessuno in Europa ha due Camere che hanno le stesse funzioni e gli stessi poteri.

In Germania i parlamentari nazionali, eletti dal popolo per fare le leggi e dare e togliere la fiducia al governo, sono 700 per 85 milioni di abitanti. Il loro Senato, il Bundesrat, non è eletto dal popolo, ma dai governi dei Länder, collabora col Bundestag nel fare le leggi, ma non ha alcuna voce in capitolo sul governo. A Londra, la House of Lords è grande più del doppio del nostro Senato: quasi 800 membri. Ma i Lord non hanno nulla in comune con i nostri parlamentari. Non sono eletti dal popolo, ma nominati dalla Corona, in quanto discendenti dell’antica aristocrazia, o cittadini benemeriti come i nostri senatori a vita. Non sono lì a tempo pieno. Collaborano con i deputati della Camera dei comuni nel fare le leggi, ma non hanno alcun potere di fiducia nei confronti del governo.

Ho sempre pensato che l’anomalia italiana andasse superata trasformando il Senato in una Camera delle Regioni, sul modello del Bundesrat. E da senatore, mi sono battuto a lungo per questo obiettivo. Insieme a tanti colleghi, sfidando la vulgata populista secondo la quale i tacchini non possono che voler rinviare all’infinito il pranzo di Natale. Il problema è che la riforma era stata fatta, ma nel 2016 è stata bocciata dal referendum popolare. La strada maestra per riformare il Parlamento italiano per renderlo più europeo è stata dunque interrotta, come una delle tante nostre strade forestali bloccate dagli schianti della tempesta Vaia. Il “realismo lungimirante” ci suggerisce dunque di prendere un’altra strada, un sentiero più lungo e tortuoso: non è l’ideale, ma è sempre meglio che rinunciare alla meta, restando fermi a guardare i tronchi caduti che ci sbarrano la strada, come di fatto propongono i sostenitori del No.

Il piccolo passo in avanti che ci propone il Sì porta l’Italia a ridurre a 600 i parlamentari nazionali (400 deputati e 200 senatori), esattamente come la Germania o il Regno Unito. Un deciso passo in avanti, realistico, ma anche lungimirante. Perché può rendere possibili altri passi, che almeno il Pd è seriamente intenzionato a promuovere: come il trasferimento al Parlamento in seduta comune (deputati e senatori insieme) della questione di fiducia, o magari dell’elezione del cancelliere, sul modello tedesco, compresa la sfiducia costruttiva; e la specializzazione delle due Camere nella legislazione, affidando al Senato, magari integrato da rappresentanti delle Regioni, il ruolo di raccordo tra la legislazione statale e quella regionale.

È in questo stesso contesto dinamico che può essere inquadrata, in modo propositivo e non solo difensivo, la delicata questione della rappresentanza parlamentare della nostra autonomia speciale. Qualunque riforma del Senato non può non fare i conti con il secondo comma dell’articolo 116 della Costituzione, che dice che la nostra Regione, il Trentino Alto Adige, titolare dello Statuto di autonomia, “è costituita dalle Province autonome”, che assumono quindi il carattere fondativo di un’autonomia speciale che la Repubblica riconosce, a condizione che si esprima nella collaborazione regionale, posta a garanzia della convivenza tra gruppi linguistici diversi. Se non potranno dunque che essere (e di fatto già sono) le comunità autonome provinciali le titolari della rappresentanza minima garantita in Senato, la legge elettorale (tanto più se verranno estese a livello interregionale le circoscrizioni senatoriali, come prevede un disegno di legge in avanzato stato di discussione parlamentare), potrà invece prevedere spazi di collegamento tra le due comunità, ad esempio valorizzando la dimensione regionale della comunità ladina.

L’ampio accordo parlamentare sul piccolo passo in avanti è in definitiva un’occasione da non disperdere, una ragionevole speranza di cambiamento da non soffocare. Il riformismo, che è un altro modo di definire il “realismo lungimirante”, non vota mai contro qualcuno, ma sempre per qualcosa. E non sacrifica mai il bene possibile.

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