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di Antonio Preiti

 

Alcune cose non tornano indietro. Neppure se il governo giallo-verde dovesse fallire. Il voto di marzo è stato sconvolgente, radicale, conclusivo e, qualunque sarà l’evoluzione della congiuntura politica, il nuovo orizzonte, di idee, linguaggi, schemi mentali è destinato a restare; come nei cambiamenti tecnologici, non si torna mai indietro. Com’era ieri vivere senza telefoni digitali? Non era peggio, non era meglio: era un’altra cosa. Tradotto in politica cosa significa? Almeno tre punti fondamentali, vediamoli.

 

Identità vs apertura

Il primo è quello dell’identità. È inutile girarci intorno: non c’è niente di più forte, più motivante, più ipnotizzante dell’identità (anche nelle sue forme involute e morbose, basta leggere Paranoia. La follia che fa la storia di Luigi Zoja per capire tutto). È quello che racconti a te di te stesso (e degli altri) che fa la persona che sei, e che decide quello che pensi e quello che fai.

Il pensiero dominante, da Bill Clinton in poi, è stato che l’apertura dei confini, dei mercati, delle persone era cosa buona e giusta. Dalla Brexit in poi, in una valanga che sembra (quasi) inarrestabile, questa idea è capovolta: bisogna chiudere confini, merci e persone. Ciò che un Clinton ha aperto, un’altra Clinton ha chiuso.

La sinistra con Clinton (naturalmente Bill) aveva trovato (con l’appoggio formidabile di Alan Greenspan, capo della Banca Federale Americana) la formula magica: grande disponibilità di finanza, grandi investimenti in Asia, crescita della redditività delle imprese, innovazione tecnologica galoppante.

 

Il globalismo è morto

Cresce l’economia americana, cresce l’economia mondiale e si afferma l’ideale progressista di riscatto dei paesi (ex) poveri, ma poi? Poi sono arrivati i problemi. Se ciascuno si considerasse “cittadino del mondo”, cioè avesse una identità non dentro i confini della sua nazione, dovrebbe essere felice, perché il mondo, nel suo complesso, non è mai andato così bene (basta solo sfogliare The Better Angels of Our Nature di Steve Pinker per capire come oggi, da quando il mondo è stato creato, ci sia meno povertà, più istruzione, meno morti violente e più ricchezza delle nazioni). Ma nessuno si sente cittadino del mondo.

Oggi il globalismo, nella mente della gente, è morto. Possiamo allora andare (tornare) a un ideale di nazione? Impossibile, al massimo cederà l’idea di Europa, ma non la concezione globalista di Stati Uniti, Cina e Russia. Chi pensa a un ritorno all’indietro sta solo regalando potere a questi tre paesi e togliendolo all’Europa. Ma un’idea globalista dell’Europa, senza avere un’Europa compiuta, “united” (cioè, se rimane ferma alla situazione di oggi, in cui l’Europa conta solo nelle cose che non contano) è impossibile.

 

La competizione con i paesi senza welfare

Detto questo, la sinistra si trova in panne, perché il progresso delle nostre società è avvenuto con la creazione del welfare, e un welfare senza confini nazionali è inconcepibile. Se la Cina non ha welfare, è evidente che il costo del lavoro sia più basso. Trump allora, che pure ha un welfare inferiore al nostro, s’inventa i dazi (o meglio li accresce) per difendere i salari interni.

Può la sinistra restare globalista, e non mettere nel conto il costo della competizione con i paesi senza welfare? In sostanza: può difendere (come bisogna) l’ideale globalista e progressista (più automazione, più equilibrio dei redditi nel mondo, meno macro disuguaglianze continentali) e allo stesso tempo difendere le condizioni economiche dei nostri lavoratori (soprattutto di quelli più esposti alla concorrenza, non certo professionisti, medici e avvocati) attaccati proprio dalla globalizzazione? Inoltre, può sostenere il welfare com’è adesso, costosissimo e burocratizzato, di cui nessuno è davvero soddisfatto?

 

L’immigrazione in Europa

Secondo punto, l’immigrazione. Nessun paese europeo ha (più) politiche aperturiste. La Germania, dopo l’accoglienza entusiasta dei Siriani in fuga, ha chiuso gli afflussi in accordo con la Turchia. Non parliamo di Orbàn, e la Francia non è mai stata particolarmente accogliente (abbiamo già dato, direbbero), la Spagna idem e la Gran Bretagna ha detto tutto con la Brexit.

Giusto o sbagliato che sia (e con l’umanità che non dobbiamo mai perdere) è evidente che l’Europa non può che avere, necessariamente, una regolazione dei flussi. La demografia dell’Africa non coincide con l’economia dell’Europa. Si può (deve) essere umani, si può (deve) essere giusti, si può (deve) essere lungimiranti, ma in nessun paese dell’Europa, neppure in quelli nordici, la popolazione intende accogliere flussi che non siano percepiti come compatibili con la società esistente.

Tutto si gioca nel mezzo di due pilastri impossibili: quello dell’accogliamoli tutti e quello del non accogliamo nessuno. Mentre è facile costruire un’ideologia e un’emozione sul primo o sul secondo pilastro, per la grande strada di mezzo non c’è (ancora) né un’ideologia, né un’emozione. Bisogna fare presto a crearla.

 

La fine dell’autorità

Terzo punto, la fine dell’autorità e la ricerca ossessiva dell’ovvio. Detto in altre parole, la prima repubblica era fondata sulle ideologie, perciò sulla lettura (libri, quotidiani); la seconda sull’immagine (perciò la televisione); la terza sulla connessione (perciò sui social media). Traducendo in termini di autorità, significa che prima vinceva l’autorità della cultura (per esempio, il Partito come “intellettuale collettivo”); poi l’autorità dell’audience di massa (“l’ha detto la televisione”); adesso vince la capacità/autorità di connettere le persone su un qualche senso o luogo comune (“se lo condividiamo tutti è la verità”).

Quello che è finito è il pedagogismo della politica, con il conseguente rifiuto del ruolo delle élites. O meglio, del rifiuto delle élite che si presentino come tali, cioè che si diano il compito di indicare a tutti cosa pensare e come vivere. Per la sinistra sarebbe un ritorno alle origini, perché la sua storia è storia di organizzazione, e di pedagogismo al suo servizio. Ma a un certo punto è successo qualcosa.

È successo che è caduta la fiducia nel popolo, a favore della fiducia nelle élite pedagogiste, insomma l’autoreferenza totale. È stato l’affermarsi del politicamente corretto, non tanto e non solo sul piano dei contenuti, ma sul metodo. Essendo il metodo: penso io il tuo pensiero, tu segui. La rivolta è stata: il mio pensiero lo penso io. Che poi non sia davvero il suo pensiero; che poi sia un pensiero modesto; che poi sia un pensiero fatto di luoghi comuni non importa. È il modo che offende.

Poi si dovrebbe aprire un discorso su come la cultura sia passata da popolare a elitaria (il film più visto nel 1960 è stato La Dolce Vita di Fellini, nel 1963 Il Gattopardo di Visconti e nel 1973 Novecento di Bertolucci, e non c’erano allora più laureati di oggi…), ma questa è altra questione.

 

Il discernimento necessario

Ecco dunque i tre macro-fenomeni con cui fare i conti: come congegnare una politica economica che non rifiuti le innovazioni e non marginalizzi i più deboli, riaprendo l’ascensore sociale; come governare l’immigrazione e costruirci sopra valori solidi e condivisi; come ripensare il ruolo della cultura e dell’autorità, senza che siano percepite come distanti, esclusive e escludenti.

Non bisogna confondere le idee del populismo con le ragioni che hanno portato le persone a preferire i populisti. Questo discernimento è decisivo, lungimirante, appassionante anche. La partita può ricominciare da qui.

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