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Le radici dell’egemonia populista

Antonio Preiti domenica 20 Gennaio 2019
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di Antonio Preiti

 

Il modo in cui cadono i governi “populisti”, lo dobbiamo ancora scoprire. Se bastassero gli errori, le incapacità e, in qualche caso, le inettitudini, il governo sarebbe già dimissionario. Nonostante tutto, almeno finora, il consenso verso le forze di governo resta alto, intorno al 60%.

Questa combinazione inedita di performance basse e di consenso alto, indica che il fronte anti-populista ha bisogno d’altro, di uno schema nuovo (pensieri, parole, azioni), perché l’intensità non è una strategia.

Lo stesso negli Stati Uniti dove Trump, nonostante il numero inverosimile di bugie smascherate; l’inchiesta sulle interferenze russe, le ripetute volgarità e, in ultimo, il blocco del bilancio nazionale, il suo gradimento è intatto. Nonostante la freschezza di Alexandria Ocasio-Cortéz, di Beto O’Rourke e delle altre nuove “stelle” democratiche, la sinistra radicale non riesce a impensierire Trump.

Si vede che l’ascesa populista ha una natura diversa. Vuol dire che sono cambiate le regole del gioco, i riferimenti generali dell’opinione pubblica, il modo in cui si giudicano le cose, il linguaggio, il valore delle parole, il senso delle istituzioni, la percezione dei vizi e delle virtù dei leader.

Bisogna allora lavorare a una strategia nuova. Non si tratta di tattiche, o di trovate della comunicazione, ma di capire quali siano gli elementi sul piano politico, economico, della psicologia sociale, di gerarchia dei valori, dei sentimenti diffusi su cui è costruita l’egemonia populista. Perché proprio di questo si tratta: di egemonia. E l’egemonia è una battaglia culturale prima che politica e coinvolge ogni aspetto della vita pubblica e privata.

Prendiamo nota e proviamo a scrivere i punti essenziali: quasi dei memo per comprendere la nuova realtà, le sue radici, la sua forza, e di conseguenza la migliore strategia per contrastare una politica rischiosa per le sue assonanze con le democrazie illiberali. Sei memo, partiamo dalla prima, l’dentità.

L’identità è la questione delle questioni, quella più complicata, radicale, durissima da affrontare nei termini politici tradizionali, perché investe la percezione di sé e del proprio mondo per ciascun elettore. Ciò che era scontato, indiscutibile, invisibile, oggi è l’argomento cruciale su cui si avvitano molte delle questioni politiche più controverse, a partire dall’immigrazione.

Se ciascuno avesse una identità globale, da essere umano – diciamo -, dovrebbe essere molto felice perché il mondo non è andato mai così bene come oggi. Escono in continuazione dati e statistiche (un solo libro per tutti, Factfulness di Hans Rosling) che mostrano come il mondo nel suo complesso mai è stato più ricco di oggi; di come interi paesi (dell’Asia, in particolare) stiano uscendo da secoli di indigenza. Sono i frutti positivi della globalizzazione. Se uno guarda al mondo dovrebbe essere felice, se guarda a sé stesso un po’ meno.

Esemplare è stato il ragionamento con cui Trump ha conquistato Detroit: spostando la produzione di auto in Messico – ha detto – le imprese hanno benefici perché abbassano i costi e aumentano fatturati e profitti; il Messico è felice perché ha nuova occupazione e acquisisce nuova tecnologia; i consumatori di tutto il mondo sono felici perché quell’auto costerà meno. Tutti felici tranne gli operai di Detroit, perché vedranno certamente le auto con prezzi più bassi, ma non le potranno acquistare, perché non hanno più un lavoro. Effettivamente è difficile pensarli felici.

La questione però più importante è un’altra. La socialdemocrazia è servita a elevare il tenore di vita di tutti gli stati europei con uno scambio molto semplice: libertà di impresa e un’alta tassazione che finanzi i servizi essenziali (pensioni, scuola, sanità). Perciò le classi meno beneficiate dalla distribuzione del reddito ottengono, in forma di servizi, quello che non hanno in termini di reddito diretto. Tutto questo avviene in un ambito nazionale, dentro i confini nazionali. Se il reddito è prodotto all’estero e la tassazione va all’estero, come si fa a finanziare i servizi dentro i nostri confini? È possibile un welfare mondiale? Certo che è possibile, ma finora non ci ha pensato nessuno. Anzi la bassa tassazione è un incentivo a investire altrove: un corto-circuito micidiale.

Questa è la radice economica dell’identità: è difficile sentirsi cittadini del mondo, se i confini dell’identità e della tassazione non coincidono. La globalizzazione, nata fondamentalmente dalla penna di Bill Clinton, cioè dalla penna con cui ha firmato provvedimenti che hanno dato il via libera alla finanziarizzazione dell’economia mondiale, dovrà essere ripensata in qualche modo. Non per negarla, come vorrebbero i sovranisti, la cui visione è miope, perché immaginare l’Italia con il suo 1,5 % del pil mondiale e con la sua popolazione ancora inferiore, combattere e vincere contro la globalizzazione è velleitario. Però qualcosa andrà fatto. Ad esempio, cambiare radicalmente le leggi sulla concorrenza europea, che oggi impediscono a un’impresa di controllare gran parte del mercato europeo di un settore (vicenda Fincantieri). Senza “campioni europei” non si vince sul mercato globale, perciò si pensi alla concorrenza mondiale e non a quella intra-europea.

Finora le questioni descritte sono economiche, ma il cuore dell’identità non staziona lì. L’identità si nutre della concezione del mondo che ciascuno, distintamente o meno, ha e manifesta. La difesa e la conservazione dei propri stili di vita è un valore legittimo. L’agire contemporaneo di più fattori, da quelli economici a quelli, ad esempio, del politicamente corretto, in cui è messo sotto accusa il linguaggio, il pensiero, e alla fine l’identità della persona stessa, è spesso vissuto non come un allargamento dei propri confini culturali, ma come un’imposizione, uno scardinamento della possibilità di vivere secondo la propria volontà, insomma– paradossalmente – come un attacco alla libertà di ciascuno.

L’idea che il sentire popolare possa essere giudicato da una parte dell’élite come un mix di superstizioni, di ignoranza e di “impresentabilità” morale non aiuta il rapporto che ci dovrebbe essere, in un mondo ideale, tra élite e popolo. Il distacco finisce con il far più male agli intellettuali che al popolo, perché li porta sulla strada dell’autoreferenza. Su questo Gramsci ha scritto parole taglienti:

“Gli intellettuali non escono dal popolo, anche se accidentalmente qualcuno di essi è d’origine popolana, non si sentono legati ad esso (a parte la retorica), non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma, nei confronti del popolo, sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta, cioè, e non un’articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso.”

Non siamo probabilmente a questo, tuttavia siamo lontani dal tempo in cui i film più visti dell’anno erano Fellini (1960), Visconti (1963), Germi (1968), Bertolucci (1988) o Benigni (1994). Si vede che la capacità oggi di fare insieme capolavori artistici e popolari è scarsa.

Come si fa allora a costruire oggi un’identità diffusa, popolare, che non sia semplicemente quella residuale anti-modernista alimentata dai sovranisti, senza un’esplicita, adeguata, sincera missione degli intellettuali? Nel vuoto di una cultura che parla solo di sé (con citazioni reciproche, riconoscimenti reciproci, premi reciproci), la gente si rivolge alla stratificazione più profonda, nota e rassicurante che è lì da decenni.

Non è più il tempo delle pedagogie: ognuno si costruisce il mondo che vuole; l’universo valoriale che vuole, crede a quel che vuole: il cielo è caduto sulla terra. E se questi mondi sono costruiti più sulla paura che sull’apertura, la risposta non è la loro demonizzazione, ma la comprensione e l’adeguata produzione culturale persuasiva. Questo forse è il memo più difficile da accogliere. Quello più necessario, però. (1. Continua)

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