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Lo Stato nei Cda? No, Orlando ha detto qualcosa di peggio

Luigi Marattin venerdì 8 Maggio 2020
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di Luigi Marattin

Il vice-segretario del Pd Andrea Orlando ha fatto un’intervista a La Stampa che sta facendo molto discutere, riguardo il modo migliore di aiutare le imprese  in questa delicatissima fase. A dispetto del titolo (“Se lo Stato finanzia le aziende deve avere un posto nel Cda”), Andrea non ha mai proposto modifiche nella  governance delle aziende. Anzi, a onor del vero egli nega esplicitamente tale ipotesi (“nessuno ha proposto che lo Stato entri nella governance delle imprese”). Ma la proposta che egli avalla (come, coerentemente, ha fatto nelle riunioni di maggioranza in cui col Presidente Conte e il Ministro Gualtieri abbiamo discusso la cosa) è a mio modo di vedere persino peggiore.

Il 5 maggio – in un’intervista a Il Sole 24 Ore – avevo già provato a spiegare perché. Provo ad articolare meglio qui il mio pensiero.

L’idea è di rivolgersi alle circa 50.000 aziende italiane con fatturato annuo compreso tra 5 e 50 milioni di euro, vale a dire il cuore del nostro tessuto produttivo. Andiamo dal ristorante molto ben avviato alla “multinazionale tascabile”, passando per il piccolo artigiano e la manifattura. Prima di tutto, lo Stato chiede ai proprietari di queste aziende di apportare nuove risorse di tasca propria. Per favorire questo sforzo, lo Stato poi ce ne mette altrettante, entrando così nel capitale dell’azienda (anche se non necessariamente negli organismi societari; ma questo, come vedremo tra poco, è all’atto pratico quasi irrilevante). In cambio, lo Stato chiede che l’impresa adotti determinati comportamenti nel tempo, ed è lo stesso Orlando a dirci quali: “ad esempio, che si mantenga la presenza sul territorio nazionale, che non si delocalizzi, che non si riduca la manodopera, che siano realizzati interventi che vadano nella direzione della sostenibilità”. Dopo un certo periodo, se l’impresa ha eseguito buona buona tutte queste cose – e chissà quante altre – ottiene un piccolo sconto per il riacquisto della quota di capitale posseduta dallo Stato.

Perché penso che questa sia una pessima idea?

1) L’intervento sembra partire dal presupposto che tutti gli imprenditori di quelle aziende abbiano uno scrigno nascosto pieno zeppo di contanti dal quale attingere per ricapitalizzare le proprie imprese. Ma questa convinzione sembra avere più a che fare con l’ideologia che non con la realtà delle piccole e medie imprese italiane.

2) Orlando sembra argomentare che i soldi alle imprese vadano dati (anzi prestati, visto che in quest’ipotesi poi l’imprenditore si ricompra la quota) solo a fronte di “condizionalità”. Per qualche strano motivo tuttavia, questa cosa delle “condizionalità” si deve applicare solo alle imprese, e a nessun altro. Lo stato deve ricevere soldi dall’Europa senza condizionalità. I lavoratori dipendenti devono (e giustamente, sia chiaro!) ricevere la cassa integrazione senza condizionalità. I professionisti devono dovere il bonus 600 euro (anche qui, giustamente!) senza condizionalità. Ora persino i lavoratori in nero (grazie ad una idea M5S) devono ricevere il reddito di emergenza senza fare nulla in cambio. Per Orlando solo le imprese devono ricevere aiuto (temporaneo) dallo Stato in cambio dell’obbedienza alle condizioni poste dallo Stato. Come ho avuto modo di ricordargli durante la riunione, a me sembra che tutti i commentatori (in primis il celebre intervento di Draghi) abbiano detto che in questo momento il ruolo delle risorse pubbliche è quello di sostituire il calo delle risorse private, senza fare troppo i sofisticati. Per tutti però, non solo per quelli che stanno simpatici a Orlando.

3) lo Stato ha la capacità operativa per decidere quali siano i comportamenti ottimali che decine di migliaia di aziende (dal ristorante all’artigiano, dall’azienda che esporta il 90% del proprio fatturato ai contoterzisti, dal settore alimentare a quello biotech) devono mettere in campo?  E come fa a controllare che queste indicazioni – che Orlando reputa giuste solo perché vengono dallo Stato – siano rispettate? E in virtù di quali caratteristiche il settore pubblico sarebbe deputato a decidere meglio dell’imprenditore quali siano le policies migliori da mettere in campo per rimanere sul mercato globale da protagonista? Il settore pubblico finora – soprattutto in questa crisi – non ha dato estrema prova di efficienza neanche nei compiti che gli sono propri (pensiamo all’erogazione degli ammortizzatori sociali o del sistema di garanzie del credito). Difficilmente potrà, quindi, essere eccellente in compiti (quelli di mercato) che non gli sono propri affatto. Specialmente se a dover gestire tutta l’operazione dovesse essere chiamato chi bolla sprezzantemente come “liberisti da salotto col cocktail in mano” chiunque gli ricordi una cosa che ogni 18enne iscritto ad un primo anno di economia studia nella prima settimana.

Nessuno nega che, quando possibile, sia meglio operare in modo che le risorse pubbliche siano il più produttive possibile (ovvero mettano in moto comportamenti virtuosi con “effetto moltiplicatore”). Ma dopo una crisi del genere, con quello che sicuramente sarà il calo del Pil peggiore della storia italiana, questo aspetto deve necessariamente essere messo in secondo piano rispetto ad un supporto immediato, semplice, adeguato. Come del resto facciamo per ogni altra categoria, addirittura i lavoratori in nero.

Altra cosa invece è sentire la nostalgia di un tempo in cui si credeva che il settore pubblico tutto potesse e tutto sapesse fare. Una convinzione che non è stata sconfitta, come si vuol far credere, da un’ideologia di segno uguale e contrario, ma semplicemente dalla cronaca dei fatti. Soprattutto in Italia, dove il “ruolo fondamentale dello Stato nell’orientare e migliorare la sostenibilità” non si è tradotto nella nascita di Internet, ma in decine di miliardi buttati in Alitalia. Per citare solo un esempio a caso.

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