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Ma il demopopulismo di Bettini rompe con la storia del Pd

Alberto De Bernardi venerdì 21 Agosto 2020
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di Alberto De Bernardi

 

Bettini ha certificato che la maggioranza che governa il Pd oggi considera terminata quella esperienza politica iniziata nel 2008 al Lingotto: costruire un partito a vocazione maggioritaria nel quale potessero trovare casa e sintesi ideale tutte le esperienze riformiste maturate durante la lunga crisi dei partiti di massa.

Questa non è una novità perché dalla crisi della segreteria Veltroni alla lunga character assassination di Renzi la storia interna al Pd è ruotata attorno a uno scontro all’ultimo sangue tra che voleva davvero costruire quella nuova esperienza politica e chi invece non voleva effettivamente realizzarla, nascondendosi dietro vecchie identità, interessi di ceto politico e giochi di potere più o meno meschini.

La doppia sconfitta referendaria (2016) e elettorale (2018) ha costruito le condizioni materiali perché il progetto di dissoluzione del Pd potesse avanzare senza remore, di fronte al progressivo disfacimento della maggioranza riformista che ha guidato il Pd nella scorsa legislatura, incapace di difendere e valorizzare il programma di riforme varate dai governo Renzi e Gentiloni e pronto a rinegoziare la propria sopravvivenza minoritaria nel nuovo partito che il trio Bettini, Zingaretti e Franceschini hanno cominciato a definire con chiarezza gia prima del congresso del 2019: un partito di sinistra, che esce dall’alveo del centro sinistra per aprire una esperienza nuova e unica in Europa basata sull’incontro tra populismo antipolitico, sinistra post comunista e cattolicopopolare.

Questo nuovo partito nasce da un rottura con la storia del Pd e dell’esperienza ulivista, che era già del tutto chiara al Congresso dell’anno scorso e francamente fanno un po sorridere quei dirigenti del Pd che ora chiedono di fare un nuovo congresso, come se non avessero già partecipato alla costruzione della nuova reincarnazione della “ditta” dalemian-bersaniana” adeguandosi all’inesorabile destino di minoranza senza ruolo e voce.

Ma nell’intervista a Bettini c’è dell’altro che merita di essere sottolineato: lo schema a due “gambe” del demopopulismo si scopre minoritario, perché basato sulla rappresentanza politica dei ceti garantiti, di chi vive di protezioni e tutele pubbliche, di istanze neocorporative, lontane dagli interessi e dalle aspettative delle forze produttive, di chi ha bisogno dello stato per stare nel mercato e non per evitare di entrarci.

L’ircocervo bettiniano si scopre debole, un re mezzo nudo che intravede la prostettiva riformista europeista allontanarsi dal proprio orizzonte perché l’allenza con i 5s incatena il Pd al reddito di cittadinanza, a Quota cento, alla distribuzione a pioggia di sussidi per quell’insieme di ceti che rappresentano la base di massa del grillismo, ma non (interamente) del Pd. E allora chiede a Renzi di inventarsi una fumosa “terza gamba” riformista e moderata: una “ruota di scorta” per costruire un schieramento che riprodurrebbe aggravati i difetti dell’Unione di prodiana memoria. Si tratta ovviamente di un follia dettata dalla paura di questo ormai logoro piccolo Richelieu di borgata.

Ai riformisti comporta invece tutt’altro percorso: riaprire i cantieri di una nuova casa riformista, globalista, europeista, che preda sulle sue spalle l’onere di coniugare libertà ed eguaglianza nel mondo post pandemico, lungo un sentiero che Draghi ha gia in parte tracciato: giovani, ricerca e innovazione tecnologica, mercati aperti e interconnessi, sviluppo delle forze produttive, promozione dell’eguaglianza delle pari opportunità. Una nuova “via” tra destra sovranista e sinistra populista. Se in questa operazione si troveranno anche i riformisti che stanno nel PD sarà un vantaggio per tutti.

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