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Per difendere la democrazia non serve un Parlamento pletorico

Carlo Fusaro venerdì 21 Agosto 2020
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di Carlo Fusaro

 

So di essere politicamente scorretto e controcorrente: ma penso che quello del 20-21 settembre è un referendum che non si sarebbe dovuto tenere.

Altro discorso se fosse stato chiesto dai cittadini: ma è stato richiesto da 71 senatori (il minimo era 64), nonostante alla Camera la legge costituzionale fosse stata votata da tutti i gruppi tranne +Europa: maggioranza e opposizione, con 553 sì, 14 no e 2 astenuti, il 97% dei presenti e l’88% dei 630 componenti!

Insomma, tutti d’accordo, ben al di là dei due terzi di cui parla l’art. 138 che in tal caso non prevede referendum: solo che nella precedente lettura del Senato (la maggioranza era M5S-Lega) il Pd aveva votato contro e i due terzi non erano stati raggiunti. Siccome da noi i giochini restano sempre di moda, gran parte dei firmatari ha in realtà voluto, imponendolo, condizionare la durata della legislatura (per abbreviarla o allungarla a seconda delle strategie) e per influenzare la Corte costituzionale che stava per pronunciarsi su un altro referendum, quello sulla legge elettorale.

Insomma, una richiesta strumentale. Meno male che almeno si è avuta la saggezza di abbinarlo alle elezioni regionali e amministrative.

Ma è, prima di tutto, un referendum al quale rispondere “no” proprio non si può.

Certo, la riduzione dei deputati da 630 a 400 e dei senatori elettivi da 315 a 200 è piccola cosa: altro ci vuole per rendere più funzionali le nostre istituzioni politiche. Ma, ahimè, i progetti organici di riforma sono stati bocciati dal corpo elettorale, sia quello varato dal centro-destra nel 2005 sia quello varato dal centro-sinistra nel 2015: da qui il ricorso a riforme puntuali di singoli aspetti della Costituzione.

Questa è la principale: altre sono in itinere, per estendere l’elettorato attivo del Senato a tutti i maggiorenni (fondamentale), per consentire circoscrizioni elettorali interregionali, sempre al Senato e per riproporzionare i delegati regionali all’elezione del capo dello Stato (cose di cui farei anche a meno).

Dice: la riduzione dei parlamentari è stata imposta a furor di M5s in nome di una critica populista della democrazia rappresentativa e della pretesa di “ridurre i costi della politica”. Sì, ma (a parte il fatto che non mi paiono disprezzabili risparmi certi e potenziali) è almeno altrettanto vero che non c’è stato progetto di riforma dal 1982 ad oggi che non abbia contemplato una maggiore o minore riduzione dei parlamentari, indipendentemente da altri aspetti più rilevanti (differenziazione delle due Camere, Camera delle Regioni, tendenziale monocameralismo).

Si va dai 480 deputati e i 240 senatori ipotizzati in seno alla Commissione Bozzi (1983-85) ai 400+200 ipotizzati in seno alla Commissione De Mita-Iotti (1992-1994), ai 400/500+200 della Commissione D’Alema (1997-98), ai 512+248 del centrodestra (2005), ai 508+250 del centrodestra nel 2012, ai 480+120 proposti dagli esperti del presidente Napolitano (2013), ai 450/480+150/200 proposti dalla Commissione Letta-Quagliariello (2013), ai 630+95 consiglieri regionali della riforma Renzi (2016).

Considerato che il numero attuale è pletorico quale che sia il criterio che si vuole usare (tranne il “non cambiamo una virgola mai, comunque”), si può opinare se 400 e 200 sia l’ideale o se numeri diversi sarebbero stati più congrui: ma non si vede come ci si possa opporre a uno snellimento che, nella peggiore delle ipotesi, lascerà le cose come stanno in termini di funzionalità, ma che potrebbe anche essere virtuosamente interpretato (assemblee meno affollate sono più autorevoli, possono operare con più efficienza e la loro composizione è per forza più selettiva).

Vi è chi dice che riducendo i parlamentari da eleggere si ridurrebbe la capacità rappresentativa delle Camere: ma è argomento che che portato alle estreme conseguenze porterebbe a camere di tipo sovietico-cinese con migliaia di componenti. Mentre si dovrebbe pur riflettere sul fatto che il Congresso USA ha 535 componenti, l’Assemblea del popolo della Cina 2.980.

I consueti oppositori di qualsiasi riforma costituzionale, anche la più modesta, la considerano suscettibile di aprire il vaso di Pandora di disastrosi attentati alla democrazia, e hanno lanciato la loro campagna “contro questo ulteriore sfregio alla nostra democrazia costituzionale”, per la gioia di quella parte della classe politica che non si arrende a un proprio ridimensionamento (già realizzato a livello regionale e locale senza danni). Ora fan fatica a farsi ascoltare da un’opinione pubblica che ha altri grattacapi. E piagnucola su una presunta assenza di dibattito.

Che si tratti per lo più di una discussione fra chierici della politica è un fatto: bisognerebbe domandarsi perché. Il perché sta appunto nella modestia dell’innovazione e nel fatto che – saggiamente – i più non vi si appassionano perché la ritengono, a questo punto, un atto dovuto.

E dovrebbe dar da pensare che fra i fautori del “no” ci sono alcune isolate vestali del “no a tutto”, diversi mal camuffati nostalgici della repubblica dei partiti, e soprattutto quanti hanno fini diversi dal combattere la riduzione dei parlamentari: combattere il M5S costi quel che costi, far cadere il governo Conte, mettere in difficoltà il Pd e la sua scelta “collaborazionista”. Obiettivi legittimi, ma in nome dei quali si infliggerebbe al Parlamento l’umiliazione di respingere un’altra riforma da esso approvata e si rinvierebbe qualsiasi tentativo di riprendere un pur minimale riformismo istituzionale.

Ecco perché, non si può davvero votare “no” e, senza eccessive aspettative, è opportuno, anzi necessario, mettere nell’urna un sereno “sì”, senza farsi strumentalizzare né affliggere da inutili drammatizzazioni.

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