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di Rosario Sapienza

 

Gli scorsi mesi di settembre e ottobre hanno segnato alcune tappe importanti per la politica europea e italiana dell’accoglienza ai migranti. Importanti, ma non esaltanti, a dire il vero.

Infatti, anche se, dopo la delusione generata dal cosiddetto Nuovo patto europeo per l’immigrazione e l’asilo, presentato dalla Commissione von der Leyen il 23 settembre [COM (2020) 609 final], le modifiche apportate in ottobre in Italia ai decreti Salvini hanno in qualche modo riaggiustato il tiro sulle problematiche poste dalle migrazioni in Europa, numerosi restano i problemi aperti.

Vediamo quali sono, cominciando dalla proposta della Commissione che era stata annunziata come la storica occasione di abrogazione del sistema Dublino.

Che si chiama così perché basato sulla convenzione di Dublino del 1990 che, di fronte a una questione migratoria vista allora come cosa di poche decine o centinaia di persone, si preoccupava solo di stabilire quale Paese europeo fosse competente ad esaminare una richiesta di protezione internazionale, individuandolo nel Paese europeo nel quale l’asilante avesse toccato il suolo europeo per la prima volta.

Questo approccio è rimasto in vigore attraverso le varie riedizioni della normativa europea, ma, di fronte a flussi di persone che hanno rapidamente raggiunto le centinaia di migliaia e che si sono da subito presentati come flussi misti (ossia composti da persone che possono aver diritto alla protezione internazionale e altre che non ne posseggono i requisiti), ha finito per gravare in maniera sproporzionata i Paesi mediterranei dell’Unione ed in particolare, come si sa, l’Italia e la Grecia.

Si è cercato più volte di uscire da questa situazione evocando obblighi di ricollocazione in altri Paesi dell’Unione, fondati sul principio di solidarietà previsto dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione.

Non si è ottenuto alcunché, nonostante l’intervento della Corte di Giustizia, che, come nel caso del ricorso della Slovacchia e Ungheria contro il Consiglio, decise che i due Stati non potevano sottrarsi ai doveri di solidarietà scaturenti dalla decisione del Consiglio (EU) 2015/1601 del 22 Settembre 2015.

E nemmeno il Nuovo patto della von der Leyen, prevede la ricollocazione come oggetto di un vero e proprio obbligo giuridico.   

E, inoltre, esso appare deludente anche perché non segna l’abbandono della riduttiva prospettiva fin qui seguita dall’Unione europea. Quella cioè di non voler considerare il fenomeno migratorio come una vera e propria crisi, implicante la necessità di misure straordinarie, attenendosi invece ai principi del diritto internazionale in materia, secondo il quale non esiste, in verità, almeno fino a questo momento, un diritto a migrare giuridicamente riconosciuto a tutti gli uomini.

E così l’Unione ha costruito un sistema volto più a tutelare i propri cittadini che i migranti cui vengono riconosciuti diritti solo se possono aspirare alla protezione internazionale. Di qui l’accento posto anche dalla proposta von der Leyen sul rafforzamento della tutela delle frontiere esterne, attraverso un rilancio delle competenze e dei poteri di Frontex, l’agenzia dell’Unione europea preposta al controllo delle frontiere.

Ora, il problema è che a questa ottica riduttiva è ispirata in Italia anche la revisione dei decreti Salvini, che certamente va salutata come un risultato importante, ma che rimane nell’ambito della visione europea secondo la quale non c’è bisogno in fondo di riconoscere diritti a tutti i migranti, dato che il diritto internazionale non ci obbliga a farlo.

Del resto, si dice, parliamo di migranti irregolari, ossia che non giungono sul territorio europeo secondo le vie legali. Vie legali sulle quali sembra insistere anche il Nuovo patto, proponendone il rafforzamento, quasi non accorgendosi che queste vie legali sono difficili da utilizzare, spesso episodicamente ricorrenti e non permanenti e comunque aperte solo a pochi. Con il risultato di alimentare il business delle migrazioni clandestine e illegali.

Eppure, fino a qualche anno fa, almeno per quello che riguarda l’area del Mediterraneo, i vertici dell’Unione europea andavano ripetendo che in virtù di una nuova stagione di partenariato, i diritti che i cittadini europei si vedono garantiti dall’Unione europea, per esempio quello alla libera circolazione, sarebbero stati garantiti a tutti entro il 2010. Forse avrebbero dovuto aggiungere, purché questi “tutti” non provassero a crederci davvero.

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