LibertàEguale

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di Alberto De Bernardi

 

“La dico banale: mi piacerebbe che dall’Assemblea di oggi uscisse una linea che conduce da qualche parte. Uniti, divisi, proporzionalisti, maggioritari, poco importa, purchè si capisca in che direzione stiamo andando. E lo si capisse al punto che sui giornali di domenica potessimo leggerlo nei titoli. Dopotutto è questo il problema del Pd, e non è un problema da poco, me ne rendo ben conto: capire, nella situazione data, cosa possa fare, dato che galleggiare stanca”. Sono parole scritte da Pier Luigi Castagnetti su “Democratica” con la sua solita passione e la sua altrettanto solita chiarezza alla vigilia di quell’assise che fotografano perfettamente il dilemma nel quale si dibatte il nuovo gruppo dirigente del Partito Democratico da dopo le elezioni del 2018.

 

Una previsione sbagliata

Martina, Zingaretti e Franceschini che sono stati i kingmakers del partito fino al congresso, aiutati da un gruppo di intellettuali presati alla politica e da un drappello di vecchi dirigenti ritornati a casa con le ossa rotte dall’esperienza di Leu, hanno pensato nella loro ingenua iattanza che sarebbe bastasse rimuovere Renzi e il suo progetto politico, per trovare una nuova via. Ma purtroppo essendo sbagliata la premessa – abbiamo perso le elezioni perché avevamo lasciato sbiadire la nostra anima di sinistra, non siamo andati nelle periferie, abbiamo tralasciato la lotta contro la diseguaglianza, abbiamo fatto prevalere l’io invece che il noi – la conseguenza non poteva che essere ben lontana dalle aspettative: invece che il rilancio, il “nuovo inizio”, c’è la paralisi del partito e quello stanco galleggiare che si protrae dalla fine del congresso.

Una informazione politicizzata al servizio permanete attivo della character assassination di Renzi e del suo vecchio gruppo dirigente, ha diffuso e sostenuto la fola che il Partito Democratico fosse tra i vincitori delle elezioni europee e amministrative di qualche mese fa nell’intento di irrobustire la figura del nuovo segretario del PD. Ma fola era e quindi rapidamente si è sgonfiata: in quelle tornate elettorali, pur allargando le liste a tutto ciò che c’era a sinistra del PD abbiamo appena tenuto i risultati del 2018, salvo qualche bella performance amministrativa per merito di sindaci capaci e di alleanze civiche originali. Lo stesso Zingaretti si è ben guardato di prolungare oltre il lecito questa narrazione infondata.

 

L’egemonia del populismo sovranista

Nel frattempo però, rispetto all’epoca del congresso, i rapporti di forza nel fronte populista si sono ribaltati: alle elezioni europee il populismo movimentista “anticasta”, antieuropeista, con venature sinistrorse (ma solo venature, ovviamente) e antipolitico, rappresentato dal M5S, si è schiantato per assenza di disegno politico, per impresentabilità della sua classe dirigente, per stupidità e incompetenza dei suoi presunti leaders di fronte alla difficile arte del governo, a vantaggio del populismo sovranista di estrema destra della Lega salviniana. Salvini ha dalla sua un partito strutturato, una classe politica sperimentata nel governo locale e nazionale da decenni, una ideologia, parte integrante di un’onda reazionaria si scala mondiale e la sua leadership indiscutibile e riconoscibile.

Se il M5s è un movimento di scalzacani e guappi di cartone, la Lega non lo è, anche se è ripugnante ciò che dice e fa: ha un progetto, una visione, anche se i risultati delle elezioni europee hanno in parte ridimensionato le sue aspirazioni, perché il fronte dei movimenti e dei partiti xenofobi e nazionalisti, con cui è alleata, è diviso e molto più debole di come era stato rappresentato. Inoltre Trump non è un leader di statura mondiale, per incompetenza e modestia intellettuale, in grado di dirigere il populismo nazionalista su scala internazionale, anche perchè non ha capito che non è certo gridando America First che riesca a invertire la tendenza al declino dell’egemonia statunitense ben colto invece da Obama. Trump, assomiglia a quei capi del partito conservatore britannico – ma è molto peggio – che negli anni trenta non avevano capito la definitiva consunzione della potenza mondiale britannica e continuavano credere di poter dettare l’agenda del mondo, come nel corso dell’Ottocento: Hitler si incaricò di faglielo comprendere, oltre ogni ragionevole dubbio; senza l’intervento americano e sovietico la Gran Bretagna sarebbe rimasta un’ isola racchiusa nello spazio geopolitico europeo interamente fascistizzato.

 

La forza della nazione

L’Italia però rappresenta un unicum a livello continentale, con Salvini che è riuscito a imporre la sua egemonia culturale a una società smarrita, alla disperata ricerca di difendere status, patrimoni, tutele collettive e redditi senza “pagare dazio”, senza cioè passare attraverso un processo di riforme che rimuova privilegi e squilibri (la sconfitta dei governi Renzi-Gentiloni trova qui molte delle sue spiegazioni), convincendola che la protezione dei “penultimi” – gli strati medio bassi di ceti medi che sono la stragrande maggioranza della popolazione – si possa fare a spese degli ultimi – immigrati, rom, giovani senza futuro – non importa se essi costituiscano una piccola minoranza della società – e dell’Europa comunitaria, che ci impone regole e che ci toglie risorse con le quali l’Italia tornerebbe ad essere un paese di bengodi.

“Tornare alla nazione” è un progetto che ha una forza dirompente dopo la crisi e di fronte alle difficoltà dell’Europa a procedere verso un progetto credibile di ulteriore integrazione politica per suoi dissidi interni e soprattutto perché l’integrazione dei paesi ex comunisti, a differenza di quelli ex fascisti, come Spagna e Portogallo, si è rivelata più complessa e contradittoria di ogni più pessimistica previsione. Il nazionalismo non è una novità nella storia europea e viene ben prima del fascismo che ne rappresenta la sua variante totalitaria : era emerso con forza di fronte alla seconda globalizzazione di fine Ottocento, promosso dai movimenti di estrema desta di allora; era riemerso con una forza ancor più dirompente negli anni trenta, dopo la crisi del ‘29. Oggi viene riesumato dopo la più grande crisi del capitalismo, perché la nazione è la più solida costruzione, dal punto di vista materiale e simbolico, della modernità occidentale, e può essere facilmente riproposta come tradizionale antidoto alle paure collettive accumulatesi di fronte alle trasformazioni planetarie in corso. Nonostante la globalizzazione abbia messo in campo forze di mercato e dinamiche culturali sovranazionali, la nazione appare, soprattutto a una popolazione anziana e relativamente benestante come quella occidentale, come l’ultima ridotta difensiva per contrastare il cambiamento, che mette in discussione conquiste e condizioni di vita, vissute da chi ne ha beneficiato non come eccezioni prodottesi in una temperie forse irripetibile – il trentennio del progressismo democratico dopo la seconda guerra mondiale – e la cui difesa richiede uno sforzo di continuo riadattamento/ripensamento, ma come “diritti inalienabili” e perciò intangibili ed esigibili in permanenza.

 

La questione dell’egemonia

La capacità del populismo reazionario di Salvini di fagocitare il grezzo populismo del “vaffaday”, in tempi molto più brevi di ogni previsione, prima trasformandolo in una sua ruota di scorta parlamentare e poi prosciugandolo elettoralmente, fa del nostro paese – un grande potenza industriale ma caratterizzata da debolezze nell’organismo statale e nella coscienza collettiva di antichissima data, da fratture territoriali mai risolte e da un sistema politico inadeguato e vecchio – un laboratorio politico di carattere internazionale sui caratteri originali – altro che fascismo che ritorna – di questa nuova destra nazionalista, statalista e xenofoba. Questo nuovo scenario dovrebbe chiamare il Partito Democratico a concentrare la sua riflessione politica su questo nuovo scenario politico propedeutica alla definizione di un progetto alternativo in grado di competere sul piano strategico con quello “verdegiallo” e di contendergli quell’egemonia ideale – in senso strettamente gramsciano – dalla quale deriva la sua capacità, ben al di là dei risultati elettorali, di definire l’agenda politica del paese e di imporre la sua narrazione del futuro. Se posso tradurre con parole mie, penso fosse questo il senso dell’accorato richiamo di Castagnetti, ma dall’Assemblea nazionale del Partito Democratico non è uscita nessuna concreta indicazione su come il gruppo dirigente del Pd intenda smettere di galleggiare e finalmente nuotare nel mare aperto della politica.

Qui abbiamo assistito a una discussione francamente insufficiente e dagli esiti surreali. Innanzitutto il segretario ha presentato una relazione introduttiva dove a un elenco di temi e proposte condivisibili e a un forte richiamo alla necessità di “cambiare tutto” non ha fatto riscontro proprio la definizione di una “direzione” verso la quale condurre il partito per realizzare gli obbiettivi proposti. Dietro un lessico roboante è stata riproposta la filosofia del “fermo immagine”, nella quale ritornano i caminetti inconcludenti dei capicorrente, mentre si evoca la tabe del correntismo; nella quale si rivendica il carattere alternativo del Pd ai partiti di governo mentre esponenti di tutto rispetto della maggioranza che sostiene il segretario trescano, o lascano credere di trescare, con non meglio precisati spezzoni di sinistra dei 5S, per riproporre l’alleanza tra sinistra e populismo; nella quale si propongono nuove forme di comunicazione e si colloca a presiedere la commissione sul digitale il compagno Boccia, che non si è ancora accorto che il Novecento è finito; nella quale si dice “partito nuovo” ma si respingono come inammissibili due ordini del giorno contro il “cacicchismo” dei gruppi dirigenti meridionali, che è il vecchio per antonomasia e la causa prima della disfatta elettorale nel Mezzogiorno.

 

Tre questioni senza risposta

In quell’elenco di temi e problemi ne enucleo tre ai quali l’assemblea non ha dato pressochè nessuna risposta.

Parliamo di scuola. Che se ne fa il Pd della “buona scuola”: la smonta pezzo a pezzo giocando di rincalzo subalterno con i sindacati della scuola che sono portatori di mere istanze corporative a difesa dell’esistente, come di fatto emerge nel documento programmatico testè elaborato, in cui tutto si riduce alla gratuità della scuola, oppure si rivendica, come ha messo in evidenza , tra gli altri, Marco Campione citando dati Ocse, che le riforme fatte nella legislatura precedente abbiano rappresentato uno dei casi nazionali con il più alto libello di investimenti sulla scuola mai fatto in passato? Oppure, quale scuola noi vogliamo alla luce dei dati Invalsi usciti in questi giorni: stiamo con i sindacati che vogliono cancellarli o piuttosto prenderli sul serio e ripensare completamente la formazione di base?: vogliamo abolire il termometro per non vedere la malattia e continuare a chiacchierare sui “poveri insegnanti” oppure riprendere la battaglia sul primato della meritocrazia, sulla valutazione, sulla centralità del rapporto scuola-lavoro, sulla riorganizzazione del tempo scuola? Riproduciamo il vecchio modello sovietico sostenuto dai sindacati e dalle burocrazie ministeriali: tu insegnante mi dai poco e io non ti chiedo di più, ma ti do però poco alla faccia della qualità dell’insegnamento erogato agli studenti, che in questo modello non hanno nessuno spazio? Su questi temi un silenzio assordante che non lascia presagire niente di buono.

Parliamo di riforme istituzionali. C’è in corso l’approvazione di una riforma costituzionale sul numero dei parlamentari, sul referendum propositivo e il Pd che cosa ha da dire? Noi che avevamo elaborato un progetto di riforma costituzionale che era passato al vaglio di un dibattito quotidiano allargato al paese intero, che seppur bocciato al referendum, costituiva un punto d’approdo di un chiaro progetto riformista delle istituzioni democratiche lasciamo passare con la sola opposizione di alcuni deputati, nel più rigoroso silenzio dei giornali e dei costituzionalisti allora impegnati in una battaglia conservatrice in difesa dell’esistente, una riforma profondamente antidemocratica che destituisce il parlamento delle sue principali prerogative costituzionali indebolendo il potere legislativo in maniera estremamente profonda? Ne vogliamo fare una questione nazionale? Quando il Pd uscirà allo coperto dando vita a comitati di difesa della costituzione e riprendendo i temi di una effettiva riforma costituzionale? Solo cosi si riesce a dettare l’agenda politica del paese

Parliamo di emigrazione. Il nodo è semplice dal punto di vista concettuale: difficilissimo da quello delle policies. Il nodo è coniugare la difesa dei diritti umani (salvataggi e jus culturae) con politiche di integrazione e questioni di politica estera. Come ha scritto Claudia Mancina “Pd non può limitarsi a testimoniare una visione giusta e razionale dei diritti umani, se vuole convincere i nostri concittadini. Bisogna proporre politiche in grado di accogliere i migranti in modo ordinato e insieme di proteggere i cittadini: revisione del trattato di Dublino, ritorno alle missioni europee nel Mediterraneo, e soprattutto riapertura di flussi regolari di cui abbiamo bisogno e che sono l’unica vera alternativa agli sbarchi”. Solo così si lotta contro gli imprenditori della paura e, ritorno, si delinea una nuova agenda politica. Ma anche di questo c’era solo una flebile traccia nel discorso di Zingaretti e ancora meno nel dibattito assembleare. A queste questione se ne potrebbero aggiungere altre: ambiente, sviluppo sostenibile, giustizia (ma noi siamo o no per la separazione delle carriere? O preferiamo dividerci su Lotti e amenità del genere?). Ma mi fermo qui.

 

Morire di tattica

Galleggiare significa non sciogliere questi nodi e non indicare una via, non prospettare una direzione di marcia: stare fermi davanti al bivio: come l’asino del famoso apologo. Ma può un partito esserne privo se vuole ancora chiamarsi tale? Come ha notato giustamente Anna Ascani in assemblea nazionale, come si fa a rispondere alla semplice, ma cruciale, domanda, perché votare Pd, se non si esce da questo impasse e non si apre la strada al difficile cammino della chiarezza programmatica?

Ma per farlo ci vorrebbero due cose che il Partito Democratico in parte non ha mai avuto e in parte ha deciso di buttare via: una solida cultura politica e una leadership. Come è emerso anche nella settimana successiva all’Assemblea questa debolezza riemerge prepotentemente di fronte alla crisi – forse più apparente che reale – del governo gialloverde. Davanti al collasso di una maggioranza parlamentare che dimostra di non sapere governare il Pd non avendo sciolto sul piano della sua cultura politica i rapporti con il populismo, fa melina. Avendo deciso risolvere la sconfitta elettorale del progetto riformista attribuendola a Renzi e evocando una soluzione a “sinistra” che si è rivelata inesistente, il Pd continua a non capire perché ha perso le elezioni e si rifiuta di mettere in gioco tutte le sue forze politiche e intellettuali per capire chi sia il suo avversario/nemico. Per questo, nonostante i fallimenti sempre più vistosi dell’alleanza di governo, non raccoglie nessun consenso ulteriore e Salvini e di Maio lo costringono a rifugiarsi nella tattica politico-parlamentare, dove inevitabilmente esce con le ossa rotte, mentre riprendono fiato gli strateghi delle oscure trame parlamentari segnalate dal ritorno di D’Alema sulle colonne di Repubblica: proprio lui che nel ’94 con una sua ardita iniziativa parlamentare fece cadere il governo Berlusconi, nella convinzione che bastasse un po’ di esperienza comunista e democristiana nel gioco parlamentare per sconfiggerlo, mentre gli apriva un’autostrada politica lunga vent’anni; proprio lui ritorna per fare lo spin doctor di quanti passano la vita a intravedere “segnali”, a posizionarsi per raccogliere i frutti “proibiti” di manovre “dietro le quinte” che solo esperti manovratori riescono a vedere e concepire.

E’ doroteismo della peggior specie che unifica gli ultimi, ma ancora influenti, residui della tradizione comunista e democristiana, presenti nel Partito Democratico: ed è la bardatura ideologica e politica di quel che resta della “Ditta” messa a ferro e fuoco da Renzi, ma dotata di risorse di sopravvivenza e resilienza notevoli. Ma la tattica parlamentare rischia di diventare un pantano come dimostra la vicenda della mozione antisalvini sul “russiagate”, che nonostante l’evidenza dei fatti, il Pd non riesce a presentare, combinando un insieme di argomentazioni evasive e contraddittorie – se la presentiamo si ricompattano, la presentiamo dopo che Salvini è venuto in parlamento cosi siamo educati, aspettiamo di sentire cosa dice Conte, non la facciamo perchè l’ha proposta Renzi ecc – che mettono in evidenza, non già una superiore e sperimentata intelligenza politica quanto proprio una deficienza di direzione e di cultura politica: un epitome del galleggiamento senza indirizzo.

 

Riformare lo statuto

Ma all’Assemblea è stata votata una commissione presieduta da Martina per riformare lo statuto del partito e quindi mettere mano alla sua organizzazione, che è la terza gamba – dopo cultura politica e leadership – di ogni partito politico. E questo è un vero e proprio colpo di teatro, perché se non ci sono o sono deboli le prime due è inutile e incomprensibile toccare la terza. Mentre galleggia e annaspa il gruppo dirigente decide di partire dalla coda invece che dalla testa. Una scelta curiosa perchè dall’intervista del flebile Martina è chiaro cosa si voglia distruggere, molto meno cosa si voglia costruire, che non sia un mero tratto di penna sull’intera storia del Pd. L’obbiettivo non è infatti pensare alla forma partito nella nuova fase storico-politico – di cui nell’intervista non c’è traccia -quanto molto più modestamente superare il Pd che aveva la sua costituency nella vocazione maggioritaria, nelle primarie, cioè in un partito contendibile, e nell’unicità della carica di leader di governo e di segretario del partito, per rifare un partito del passato: un partito oligarchico, governato da caminetti correntizi che Renzi aveva spazzato via. Il famoso e melenso “noi” non sta a dire il partito degli iscritti, della base, il partito bottom up; significa più modestamente e maldestramente il partito dei capicorrente, che si contendono il potere, negando però la centralità della leadership, che nessuno di loro possiede e che li minaccerebbe nel controllo dell’organizzazione.

Roba già vista che ha già portato alla disfatta politica. Ridimensionare le primarie comporta in sistesi il forte ridimensionamento della contendibilità della direzione politica: l’intento è impedire non solo che Renzi ritorni ma che nessun altro Renzi si riproduca nel partito. Questo progetto è poi rafforzato dalla “separazione delle carriere” basate sul principio che il Pd non esprima più la leadership di una alleanza antipopulista, ma che venga affidata a un “ capocoalizione”: nel quadro politico attuale una specie di Conte di sinistra che passerà il suo tempo a smussare contrasti e divergenze dei coalizzati, come ai tempi dell’Unione. E il segretario del Pd sarà una specie di cireneo che dovrà coprire questo traballante circo Barnum in nome dell’unità della coalizione. Una catastrofe annunciata.

Ma l’esito di questo restyling è colpire il bersaglio grosso: la vocazione maggioritaria, che non riguarda tanto la presunta contrapposizione tra “andar da solo” e primato della coalizione che esiste solo nella testa di Bersani, di Prodi e dei giornalisti di Repubblica, quanto piuttosto attiene a mettere al centro la questione governo, cioè la natura del Partito Democratico: Il Pd è un partito riformista che esiste per governare “la nazione” – è il partito della nazione – e che esprime una cultura di governo anche quando sta all’opposizione. Questo assunto non si riduce alla favoletta dell’ “opposizione responsabile”, quanto piuttosto che l’interesse nazionale è la bussola del suo agire e che è sempre in grado di esprimere cultura di governo. Qui sta la grande differenza tra il Pd e tutte le organizzazioni politiche nate dalla fine del Pci, non tutte dotate di questa cultura e orientate da questa bussola. Questo profilo è stata la straordinaria novità rappresentata dal Pd fondato al Lingotto dieci anni fa, anche se il suo fondatore sembra essersene dimenticato.

 

La novità del Pd: l’unica risorsa politica a cui essere leali

Il Pd che ha in testa Martina, e che spero la commissione cancelli o ridimensioni, è invece un vecchio partito di sinistra costretto ad allearsi con frammenti più o meno grandi alla sua sinistra e alla sua destra in una rinnovato Ulivo: ma questo disegno è impossibile, antistorico, regressivo perchè non esiste più nessuno dei fattori storico-politici generali che avevano fatto grande quell’esperienza politica. Tornare al “centrosinistra” è solo una retorica, dunque, poiché né a sinistra né a destra del Pd ci sono forze reali coalizzabili, che vadano oltre percentuali minime; è piuttosto il trionfo della vocazione minoritaria e il ritorno a un partito non di governo, che non può che aspettare che l’anello debole della catena populista – i 5S – si spezzi e/o sia disponibile a una alleanza “ministeriale”, senza progetto e senza futuro. Siamo al congresso dei DS del 2001; d’altronde Martina da li viene.

Proprio ora, invece, sarebbe il momento di rilanciare la vocazione maggioritaria come caratteristica unica del Partito Democratico nello spettro delle forze politiche, organizzando innanzitutto quelle forze “esterne” che il Pd non ha mai voluto organizzare: gli elettori delle primarie, di cui possediamo indirizzi e contatti, e coloro i quali ci danno il 2% che sono quasi il triplo degli iscritti reali. Stiamo parlando di milioni di cittadini ai quali il pd ha rinunciato a parlare fin dalle origini, perché ha una organizzazione inadatta a farlo e soprattutto antropologicamente e funzionalmente autoreferenziale. Per coinvolgere questi “democratici”, avrebbe senso riformare il partito, a partire dal suo statuto. Il “partito degli elettori” è questo; gli altri evocati da Martina sono wishful thinking, nella migliore delle ipotesi, o operazioni strumentali nella peggiore.

Con un partito senza indirizzo, una leadeship debole e partito a vocazione minoritaria la forza del nazionalismo sovranista populista e antipolitico non può essere effettivamente aggredita e messa in difficoltà: altro che “noi siamo l’alternativa”. Non lo siamo e questo e attuale Che fare? a cui siamo di fronte. E non si vede all’orizzonte nessun Lenin che vi risponda, e questa forse è l’unica cosa positiva. Tutto il resto è caricato sulle spalle dei riformisti che oggi come non mai devono sentire la responsabilità di delineare qualche risposta che aiuti il pd a fare breccia nell’opinione pubblica. Quel 21% a cui è quotato il Partito Democratico in tutti i sondaggi da settimane dice che non c’è tempo da perdere mettendo in campo una iniziativa politica straordinaria, diversificata, multitasking, incisiva. Le due assemblee di Sempreavanti e di Base riformista sono stati un primo passo significativo perché hanno messo in evidenza che i riformisti, seppur presentatisi divisi al congresso, hanno una base ideale e programmatica comune su cui fondare quella iniziativa politica straordinaria, oggi ineludibile. Ci sono idee, programmi e persone che possono aiutare il Pd a rimettersi in movimento. Questo costituisce il massimo livello di lealtà utile al Pd perché è utile al paese.

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