LibertàEguale

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di Giovanni Cominelli

La notizia della liberazione di Silvia Romano ha sfiorato la società italiana e la sua politica come una cometa dalla lunga coda di speranza, di cui questi Paese, alle prese con il Covid-19, ha disperatamente bisogno. Tuttavia, la scena dell’arrivo a Ciampino di questa ragazza, avvolta nell’ibaya, cioè – per citare da La Repubblica lo scrittore Tahar Ben Jelloun, “nel vestito dell’Islam rigorista, integralista e antioccidentale… simbolo, insieme al velo, di un islam duro, protestatario e identitario” – ha suscitato in molti cittadini, me compreso, un disagio profondo. In una parte della società civile – ma forse qui l’aggettivo è decisamente esagerato – ha fatto emergere il suo lato ferino e le correnti d’odio che la percorrono carsicamente, tra le quali anche correnti di odio cristiane – non è un ossimoro! – che la bollano come traditrice, erede degli antichi “lapsi”.

Si sono scatenati i social media con insulti e minacce rivoltanti. Ha preso a circolare persino un video – vero? falso? – in cui la ragazza, vestita solo di una borsetta, cammina per strada, proclamando che starebbe facendo un “esperimento sociale” per dimostrare che, immigrati o no, nudi siamo comunque tutti uguali.

Scavare nel nostro disagio

E’ necessario scavare nel nostro e mio disagio, perché probabilmente non è del tutto irrazionale e, quand’anche lo fosse, avrebbe bisogno di una spiegazione razionale. La chiave esplicativa sta, credo, nella intollerabile sovrapposizione tra la vicenda personale di Silvia Romano e il violento uso politico-mediatico che il Presidente del Consiglio Conte e il suo degno ministro degli Esteri Di Maio ne hanno imbastito.

Sulla vicenda personale, con buon senso milanese, la mamma della rapita ha replicato pianamente a chi contesta la conversione all’Islam fondamentalista di Silvia che chiunque si fosse trovato in quei posti per un anno e cinque mesi nelle stesse condizioni di sua figlia sarebbe anch’egli ritornato “convertito”. Nessun eroe da tastiera, nessun opinionista al caldo della propria redazione, nessuno che abbia una figlia, una sorella, una nipote… si può permettere di scagliare la prima pietra contro una ragazza che si è trovata in balia di bande di assassini fondamentalisti islamici, che ha camminato per 500 giorni sul crinale sottile che separa la vita dalla morte, torturata psicologicamente per interminabili mesi. In ogni caso, una cosa è chiarissima: abbiamo a che fare con una vittima. Toccherà a lei, ora che si trova libera da costrizioni esterne, decidere di sé.

Tahar Ben Jelloun si chiede: “Silvia proseguirà il suo progetto umanitario o cercherà di diffondere intorno a sé un Islam scoperto quanto meno in condizioni strane?”. La risposta tocca alla sua libertà, di cui noi occidentali e cristiani facciamo l’elogio ogni giorno. Si chiama libertà religiosa. Se poi dovesse sconfinare nella pratica del terrorismo come temono Sgarbi – che ne ha chiesto l’arresto – e qualche deputato leghista, lo Stato avrà tutti i mezzi per intervenire. Al momento, di fronte ad un dramma privato di tali dimensioni, convengono solo il rispetto e il silenzio.

La vittima-trofeo

La gestione pubblica e statale di questo ritorno doveva perciò essere coerente con questo silenzio-rispetto. Non occorreva molto, anzi niente. Niente televisioni, niente photo-opportunity, niente darsi di gomito di fronte alle telecamere. Consapevole di questa dimensione è stato solo il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, l’unico che avrebbe potuto rivendicare una legittima presenza propagandistica. Viceversa Conte e Di Maio si sono precipitati a Ciampino per trasformare il dramma privato di una ragazza e della sua famiglia in una squallida pièce melodrammatica, generando in parti consistenti dell’opinione pubblica contro-reazioni feroci, ma inevitabili. La vittima liberata è stata esibita come un triste trofeo, come facevano i condottieri romani che rientravamo vittoriosi con le loro legioni, con i vinti incatenati al carro trionfale. Si è trattato di un’operazione tra le più eticamente squallide del governo demopopulista. Un cinismo feroce e indecente, che ha trasformato una vittima privata in vittima pubblica, due volte vittima.

Questa “indegna gazzarra” mediatica ha, intanto, ha annunciato al mondo intero la squillante vittoria politica e culturale di Al-Shabaab. A Ciampino, Governo e Tv hanno girato gratis uno spot planetario a favore di Al-Shabaab. Vittoria politica: perché, come ha rivendicato il loro portavoce, hanno preso qualche milione di Euro per elargire un po’ di assistenza ai diseredati della terra e legarli a sé e per l’acquisto di armi, il cui uso produrrà migliaia di morti, che il Gruppo terroristico diligentemente accumula dal 2006. Vittoria ideologica: quale prova migliore della propria egemonia in Somalia e nel Corno d’Africa, se persino una ragazza occidentale, che in Italia si permette ogni libertà possibile di comportamento, ritorna nel proprio Paese con il vestito dell’integralismo islamico e con il nome di Aisha, già sposa preferita del profeta Maometto, poi vedova guerriera, poi una specie di Madonna dell’intero mondo islamico? Non è il segnale mandato ai giovani somali e africani che la Jihad contro gli infedeli paga, letteralmente e non solo?

Le conseguenze? Altri morti

Si discute da decenni nei e tra i vari Paesi se sia opportuno o no trattare con i terroristi per la liberazione degli ostaggi. La politica italiana ha sempre seguito due linee parallele nei rapporti con i Gruppi terroristici. La prima: dopo la strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973, fu firmato tra l’allora ministro degli Esteri del Governo Rumor, Aldo Moro, e i Gruppi terroristici palestinesi un accordo che garantiva loro il libero passaggio di armi ed esplosivi sul territorio nazionale; in cambio si impegnavano a non colpire obbiettivi in Italia, fatta eccezione (sic!) per quelli americani e israeliani.

La seconda: trattare sempre per la liberazione degli ostaggi in mano a gruppi politici. E’ stato fatto anche questa volta.

Ora, se lo scopo del rapimento, perpetrato da gruppi criminali o da gruppi politici, è quello dell’ottenimento di denaro, allora il pagamento del riscatto alimenta la spirale senza fine dei sequestri. Nel caso dei gruppi terroristici moltiplica il numero dei morti. Altro caso è quello dei sequestri a fini politici, come furono i casi Sossi, Moro, Cirillo…

Comunque la si pensi – pagare o no il riscatto – è solo indecente l’ipocrisia del Ministro delle mascherine estere, che sostiene di non aver mai saputo del pagamento del riscatto. Giulio Andreotti, che di ipocrisia era premio Nobel, suggeriva ai politici una regola: “Caute, nisi caste” – se non puoi essere casto, sii almeno cauto. I demopopulisti non sono nec cauti nec casti.

 

(Pubblicato su www.santalessandro.org il 13 maggio 2020)

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