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Transizione Usa, ecco come funziona (e a che punto siamo)

Carlo Fusaro venerdì 13 Novembre 2020
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di Carlo Fusaro

Mentre Biden, mano a mano che i tabulati coi risultati delle elezioni stato per stato si vanno completando, accumula sempre più voti di vantaggio su Trump, quest’ultimo continua a non accettare l’ormai evidente sconfitta suscitando la preoccupata indignazione di mezza America e mezzo mondo.

Piano piano alcuni importanti esponenti del GOP (il partito repubblicano) fanno conoscere la loro opinione favorevole all’accettazione della sconfitta da parte del presidente uscente, ma il grosso dei deputati e senatori è ancora allineato e coperto dietro al presidente. In effetti se le elezioni di ballottaggio in Georgia (il 5 gennaio) andranno bene per i repubblicani, Biden si troverà un Senato d’opposizione. E gli USA sono il solo paese nel quale il Senato ha gli stessi poteri della Camera e qualcuno in più; soprattutto ha solo 100 componenti ed è perciò più agevolmente controllabile. Il guaio è che mentre in passato il presidente di un partito poteva sempre ottenere i voti di senatori (e deputati) d’opposizione negoziando con essi concessioni in genere finanziarie per questa o quell’iniziativa od opera in cambio, con la recente polarizzazione (all’italiana verrebbe fatto di dire) la bipartisanship è sparita e la presidenza finisce paralizzata e costretta a fare l’equivalente dei nostri famosi decreti del presidente del consiglio dei ministri (gli executive orders)!

Intanto la c.d. transizione presidenziale è semi-bloccata. Di questa voglio parlare oggi.

Abbiamo capito tutti che nel sistema USA dal voto al 20 gennaio dell’anno successivo – quando il presidente eletto giura – passano ben 10-11 settimane nelle quali “il” presidente resta quello uscente (ho già spiegato che questa è solo un’apparente stranezza in un articolo del 4 novembre 2020).

Non sono settimane buttate via: perché sono dedicate alla preparazione del passaggio di consegne (20 gennaio), che fino al 1933 era ancora successivo, a marzo. Il presidente eletto si organizza (meglio: adegua e accresce la sua squadra, direi il suo squadrone di centinaia di persone) e si prepara a governare “from day one” come dicono gli americani (cioè a partire a razzo).

Ma contrariamente a quel che si legge e sente da quelli che scrivono e parlano a pappagallo, la transizione presidenziale non è affatto affidata (solo) a convenzioni misteriose e buone prassi: è regolata minuziosamente come solo gli anglosassoni riescono a fare. Ben poco è lasciato al caso!

Esiste un “Presidential Transition Act” del 1963, modificato ben cinque volte che regola le prerogative sia dei candidati presidenziali dei due maggiori partiti sia dei presidenti eletti: risorse di cui godono, informazioni al cui accesso hanno diritto. Naturalmente con una incomparabile differenza fra i due casi: il “presidente eletto” ha diritto ad ottenere dalla “General Services Administration” fondi, strutture, spazi per uffici per decine di milioni di dollari.

Esiste addirittura un sito “Presidential Transition Directory” (guardatelo! https://presidentialtransition.usa.gov/) dove il team presidenziale nuovo, quello vecchio e le 130 agenzie federali trovano tutte le indicazioni e istruzioni utili, FAQ comprese. Fra queste i rinvii all’influentissimo OGE (Office of Government Ethics) il quale cura (col Congresso) la pubblicazione periodica del c.d. “Plum Book”.

Il Plum Book è il catalogo dei circa 8-9.000 (otto-novemila) incarichi (non a concorso) che ciascun Presidente ha il diritto di affidare (“nomine”). E l’OGE ha, fra le altre, la funzione di fare le verifiche anche e soprattutto fiscali su tutti i candidati ad essere nominati, nonché a individuare e risolvere gli eventuali conflitti d’interesse: anche a questo son dedicate quelle 10-11 settimane fra voto e giuramento. Per evitare di trovarsi nelle grane il giorno dopo il “Day-One” della nuova amministrazione.

Naturalmente anche Biden-Harris hanno da tempo (ora potenziato) il loro team di transizione con tanto di website: https://buildbackbetter.com si chiama (“Restoring American Leadership”, il motto: testi anche in spagnolo!). Vi si trovano tra l’altro le decine e decine di “Agency Review Teams” appena nominati per mettere in grado la nuova amministrazione di governare, settore per settore. Trenta pagine di comitati, centinaia e centinaia di esponenti politici, della società, delle categorie, delle università, delle ONG, coordinati da persone di fiducia del presidente eletto che rivedranno le bucce a tutte le amministrazioni federali, una per una da ora a gennaio.

Torno a bomba all’attualità più immediata. Il capo (è una capa in questo caso) della General Service Adm., in base alla legge, deve determinare, SENZA ASPETTARE I RISULTATI UFFICIALI (che si dovrebbero avere all’8 dicembre) chi è l'”apparent winner” delle elezioni: e dare l’avvio ai rapporti col team del presidente eletto, fornirgli indicazioni e risorse, dare il via allo scambio di tutte le informazioni utili e necessarie, etc.

Qui casca l’asino: chi è l'”apparent winner”? Per i media e per tutto il mondo (beh, tranne Russia e Cina) è Biden. Ma come sappiamo non per Trump, mentre l’esito ufficiale non è stato proclamato dagli Stati (e non tradotto in voto dei grandi elettori). (Non ci indigniamo a vanvera: anche da noi una cosa sono i risultati su giornali e tv, altra quelli certificati dal Ministero dell’interno, che vengono parecchio dopo.) Su questo giocano la GSA e la sua capa (nominata da Trump, ovviamente), dicendo: «ancora non si sa».

Non è la prima volta. In particolare nel 2000 quando insorse la controversia sui voti in Florida risolta solo dalla Corte Suprema settimane dopo, si attese quella sentenza, la concessione di Gore e solo allora il processo di transizione verso Bush junior partì formalmente.

La differenza qual è? La differenza giuridica non esiste: è una differenza sostanziale: per quanto Trump strepiti con i suoi supporter e avvocati, la ragionevolezza dice che Biden è il presidente-eletto e non c’è barba di contestazione che possa sovvertire l’esito delle elezioni dati i margini e il numero degli Stati in ballo (a Trump non basta riprendersene uno o due).

Non resta, per concludere, che ripetere l’invocazione di dieci giorni fa (Biden dixit): pazienza, pazienza, pazienza. Calma e gesso. Non mancano al team dell’eletto cose da fare, e alla fine anche la GSA si acconcerà a dare il via alla transizione formale.

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