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Tre tesi sul ruolo del PD nel sistema politico

Stefano Ceccanti martedì 9 Marzo 2021
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di Stefano Ceccanti

 

Prima tesi: i riformisti erano minoritari nel primo sistema dei partiti, potevano praticare un importante riformismo a spizzichi, ma non di più

Prima del Pd, i democratici, i riformisti, esistevano? E se sì, dove stavano?

Credo che questa sia la prima domanda che ci dobbiamo porre per capire il ruolo del Pd, l’intuizione fondamentale per cui esso è nato.

Nulla nasce infatti mai da zero, anche se alle nostre spalle non c’è un’età dell’oro come a volte, retoricamente, alcuni sembrano affermare per nostalgia personale o per reazione ai limiti obiettivi del secondo sistema dei partiti.

I democratici, i riformisti, c’erano, ovviamente, anche prima. Perché però si è resa opportuna, se non addirittura necessaria, la nascita del Pd?

Perché in precedenza in tutte le principali forze politiche erano attive minoranze riformiste significative, ma che, per l’appunto, erano minoranze strutturali. In grado di imprimere, in alcuni passaggi, delle scelte importanti, ma non in termini di un coerente ciclo riformista durevole, in termini piuttosto di ‘riformismo a spizzichi’. E questo anche se in alcune fasi queste minoranze grazie al ruolo trainante di alcuni leader hanno assunto un ruolo egemonico: la scelta atlantica e europea di De Gasperi e Saragat; il primo centrosinistra di Moro e Nenni a partire dalla riforma della scuola media unica, l’ingresso nell’Euro per il primo Ulivo di Prodi, Veltroni e Andreatta, e così via. Ma sempre minoranze restavano. Basti pensare alle resistenze delle componenti conservatrici della Dc nel centrosinistra e nella solidarietà nazionale, nonostante il punto alto dell’ultimo discorso di Moro del 28 febbraio 1978, al massimalismo così forte nel Psi nonostante momenti alti come la Conferenza di Rimini del 1982, al tentativo della componente migliorista del Pci di stabilire rapporti organici col socialismo europeo che si poterono sviluppare pienamente solo dopo il 1989.

Emblematiche da questo punto di vista le figure degli ultimi due Presidenti della Repubblica, espressione delle due culture politiche quantitativamente più rilevanti che si sono integrate nel Pd. Entrambi, Napolitano e Mattarella, espressione di minoranze strutturali nei rispettivi partiti.

È indubbio, ad esempio, che larga parte del riformismo di fatto, in Italia, si sia espressa nel Pci, in un partito che sino al 1989 ha mantenuto nel nome e nel simbolo dei riferimenti altri rispetto a quelli del resto d’Europa (in cui c’è stata esclusione reciproca tra comunismo e riformismo sia nella teoria sia nella prassi) ma lo scarto – per dirla con Giovanni XXIII – tra il movimento storico e l’ideologia non è stato privo di effetti, a cominciare da quello dell’impossibilità dell’alternanza. Certo, si può considerare che influssi riformisti si possano comunque dispiegare per la propria capacità di egemonia sociale, anche dall’opposizione, ma questa rischia di essere una tesi consolatoria: senza una permanenza di lunga durata al Governo del Paese si fa riformismo a spizzichi, non si imprime una direzione solida.

È altrettanto indubbio che nei partiti di Governo si siano espresse significative scelte riformiste, ma quei partiti, a cominciare dalla Dc, partito di maggioranza relativa, erano comunque condizionati da un elettorato a dominante conservatrice, che limitava la possibilità strutturale di scelte riformiste.

Scegliere di costruire il Pd significa quindi non pretendere di partire da zero e di azzerare le culture politiche precedenti, ma di non ritenere quella l’età dell’oro. Si può essere orgogliosi delle esperienze delle giunte locali e regionali di sinistra a partire dall’Emilia-Romagna, delle scelte atlantica ed europea di de Gasperi e Saragat nella prima legislatura, del Governo nazionale Moro-Nenni del primo centrosinistra, ma in ultima analisi l’egemonia comunista sulla sinistra e l’unità politico-elettorale dei cattolici nella Dc erano due anomalie negative e non due specificità positive, viste in una chiave riformista. Pluralismo polarizzato o bipartitismo imperfetto dicevano i politologi: comunque anomalie.

Penso che sia sufficiente leggere il volume di Pietro Scoppola su “La Repubblica dei partiti” per poter cogliere bene questi aspetti in modo certo più sistematico e argomentato. A quello rinvio quindi per completezza.

 

Seconda tesi: la stretta connessione tra evoluzione del sistema dei partiti e assetti istituzionali-elettorali. Il Pd è legato ad una logica da democrazia governante

Le regole istituzionali ed elettorali contano, ma non in termini deterministici e monocausali. Esse sono, come correttamente definite da Duverger, freni o acceleratori dell’innovazione.

Ora l’evoluzione naturale del sistema di regole pre-1989 (un sistema elettorale fotografico quasi puro, mentre quelli delle grandi democrazie tendono ad essere più dei trasformatori di energia che non macchine fotografiche; un sistema istituzionale assembleare senza particolari congegni di stabilizzazione dei governi) avrebbe naturalmente portato a una deriva di frammentazione, come si vide già nelle elezioni politiche del 1992. Prima di allora partiti forti surrogavano regole deboli. Indebolitisi i partiti, a regole invariate, il sistema rischiava una deriva.

Sia pure con alcune incongruenze interne, le nuove regole post 1993, nella direzione di una democrazia governante col ruolo decisivo degli elettori (realizzata in modo coerente a livello locale e regionale, ma molto confuso a livello nazionale), hanno sì per un verso confermato la frammentazione con deboli soglie di sbarramento, ma hanno anche spinto a bipolarizzare.

È stato quindi possibile riunire la gran parte dei riformisti sotto forma di coalizioni di centro-sinistra anche con un’esperienza significativa di Governo, particolarmente incisiva con l’Ulivo del 1996-1998. Da lì, e dai limiti riscontrati, in particolare con la distinzione tra premiership e leadership, altra anomalia ereditata dal primo sistema dei partiti rispetto alle altre democrazie parlamentari, che innesca una conflittualità inevitabile al vertice, è sorta anche la spinta ad una più compiuta unità sotto forma di partito. Le regole nazionali, elettorali e costituzionali, restano chiaramente da perfezionare perché non possiamo considerare soddisfacente che i Governi nascano in modo costante, anche se legittimo, procedendo dal Presidente della Repubblica oppure che siano affidati a deboli e sempre reversibili accordi tra i partiti. E’ una materia da riprendere, credo ripartendo sostanzialmente da zero rispetto alle intese delle fasi precedenti della legislatura, col contributo di tutti. Non è pensabile che in un Governo di tregua ci sia una lacerazione sulle regole, ma questo non deve indurre alla paralisi, ad un atteggiamento rinunciatario.

 

Terza tesi: il Pd tra già e non ancora nella sua forma partito e nelle sue alleanze

Il Pd ha quindi creato un’originale forma partito che, anche alla luce delle modalità più flessibili con cui oggi si modellano e rimodellano le identità politiche – incrociando l’asse destra sinistra con altri assi che si aggiungono e si sovrappongono, pensiamo a quello tra europeisti e antieuropeisti – ha tenuto conto di due diverse scelte di appartenenza: quella più permanente degli iscritti e quella più flessibile degli elettori. Anche qui portando a maturazione esperienze sperimentali già praticate dai partiti storici: dall’Assemblea degli esterni della Dc del 1981alle varie forme di primarie sperimentate dal filone Pci-Pds-Ds in alcuni contesti locali.

Il blocco dell’alternanza a livello di sistema portava anche limiti nelle forme partito tradizionali: l’unità del Pci era assicurata dal ruolo egemonico del suo centro interno che utilizzava le ali ma relegandole ad un ruolo subordinato (miglioristi e ingraiani), ad essa si opponeva la Dc che in quanto debole federazione di correnti (in realtà partiti diversi) praticava la scissione tra leadership e premiership, anche se per far fronte alla sfida di Craxi praticò l’apertura agli esterni, l’elezione diretta del segretario e il tentativo di unificare leadership e premiership, fu spinta verso la fine ad una maggiore contendibilità interna.  Analoghe iniziative prese poi anche nei passaggi dal Pci al Pds ai Ds.

Per tale via il Pd ha quindi tentato, radicalizzando le innovazioni precedenti, di risolvere, con lo strumento delle primarie aperte nella fase decisiva agli elettori, il nodo dell’unificazione tra leadership e premiership, come proposto nella relazione Vassallo al seminario di Orvieto del 6 ottobre 2006.

Ovviamente nessuno ignora tutti i limiti emersi in questa sperimentazione che non ha ancora raggiunto la maggiore età. Ad esempio il persistere in alcuni di una visione introversa di partito, per cui alla fine si preferirebbe un partito come comunità chiusa che viene prima di qualsiasi funzione di governo, e in altri all’opposto di una visione che antepone l’essere al governo rispetto a qualsiasi contenuto da sostenere. Ma in fondo il Pd è ancora un partito giovane, di solo 14 anni.

In particolare la Costituzione formale del partito contendibile delle origini fu parzialmente neutralizzata da una Costituzione materiale unanimistica delle prime primarie che incoronarono Veltroni. Lo si poteva considerare un limite inevitabile di una fase costituente, che postula una logica di quel tipo. Il seguito ha segnato fasi, a cominciare dalla segreteria Bersani, in cui si è cercato di allineare la Costituzione formale su quella materiale, con ripetuti tentativi di delegittimazione delle primarie aperte che colpirebbero alla radice la contendibilità, e da fasi in cui è stata invece rilanciata con forza la Costituzione formale interna però secondo una scansione temporale anomala (Renzi diventa segretario e poi Presidente del Consiglio, ma non passando per il voto).

Tuttavia, al netto di tutte le possibili contraddizioni una cosa, almeno sin qui, è certa: tutti coloro che nei partiti fondatori, a inizio percorso, o attraverso scissioni successive, hanno cercato rifugio nella nostalgia per identità precedenti o nelle velleità di partiti personali, hanno al massimo causato danni al Pd, ma hanno ottenuto pressoché nulli benefici per sé. Nell’ambito del centrosinistra, o comunque più alla sinistra o più al centro del Pd sono stati fatti vari tentativi che dopo poco hanno solo disperso energie in negativo.

Ciò vale anche per modelli organizzativi talora presentati con imperdonabili semplificazioni come radicalmente innovativi (come quello del M5s) che si sono però dimostrati presto transeunti e disfunzionali.

Il Pd è quindi tra già e non ancora: è giusto elencare difficoltà e immaginare strade innovative, ma le scelte fondamentali innovative (la fusione tra riformismi prima minoritari, l’assetto di una democrazia governante, il partito di iscritti e di elettori) costituiscono un già da confermare. Non fosse altro perché chi ha cercato di ridiscuterle non ha trovato nessun domani che canta.

Ciò significa, pro futuro, che siamo sicuri che basti il Pd com’è ora? In un panorama delle democrazie europee in cui i partiti nascono e muoiono con grande velocità, non ci sono comunque rendite di posizione per nessuno. Non è comunque tempo di usati sicuri.

Un’ultima postilla va fatta sulle alleanze. Il sistema sembra avviato verso una nuova bipolarizzazione e quindi la convergenza realizzata a partire dal Governo Conte 2 non possono essere liquidata come se la correzione europeista rispetto al Conte 1 non fosse stato un primo significativo passaggio. Tuttavia esistono almeno due modi diversi con cui si può affrontare questo tema e non per ragioni partigiane. Il dato preoccupante dei recenti sondaggi di opinione non è costituito in sé dal fatto che il M5s rigenerato dalla leadership dell’ex-Presidente del Consiglio possa scavalcare il Pd, ma dal gioco sostanzialmente a somma zero tra i due elettorati. Un nuovo centrosinistra a guida del pur rinnovato M5S non appare espansivo né per gli elettori incerti né per le forze politiche non pregiudizialmente schierate nell’uno o nell’altro senso. E’ una rinnovata capacità di guida e di iniziativa del PD, che faccia leva sulla naturale sintonia con quella vasta area liberale e democratica che è così autorevolmente rappresentata nel nuovo Governo. La capacità del centrosinistra di conquistare consenso maggioritario tra gli elettori è una conseguenza della vocazione del PD a rappresentare -e a tornare ad essere punto di riferimento- di questa area liberale e democratica.”

La scelta su questi nodi non può essere comunque differita oltre questo anno; sostenere il contrario significa ignorare che altrimenti il Pd rischia di essere parte dei problemi dell’Italia e non delle soluzioni..

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