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Aborto Usa, Clementi: “serve un patto contro la guerra civile”

Redazione sabato 25 Giugno 2022
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Intervista al costituzionalista Francesco Clementi

a cura di Mario Sechi, direttore dell’agenzia AGI*

 

Il diritto all’aborto in America è stato abolito? No. Ma anche sì. In questa contraddizione c’è il dilemma di un’America che fatica ad evitare una seconda guerra civile. Il paese è in uno stato permanente di culture wars, sembra non trovare una via d’uscita. C’è una difficoltà nel passaggio dalla poesia di Amanda Gorman (‘In This Place’), scritta per il giuramento di Joe Biden, alla prosa di ogni giorno, dall’ideale alla politica. La decisione della Corte Suprema infiamma il paese, la collina da scalare sembra sempre più alta. È una questione di diritto (e di rovescio). Per sapere, per capire, occorrono strumenti raffinati di analisi. Il professor Francesco Clementi, costituzionalista, docente di diritto pubblicato comparato a Perugia, è la persona giusta per guardarci dentro.

Professor Clementi, che cosa stanno dicendo – a tutti noi, non solo agli americani – i giudici della Corte Suprema?

Che nessun pasto è gratis, che la democrazia va coltivata ogni giorno, dunque i diritti devono ricevere il sole che la partecipazione alla vita del paese ciascuno di noi deve dare. I diritti senza doveri, a partire da quello della partecipazione, vuol dire diritti vuoti.

Che decisione è quella della Corte?

Ci troviamo di fronte a una decisione importante, perché dal punto di vista della tecnica giurisprudenziale della Corte, fa una cosa rara.

Quale?

Fa l’over-ruling, cioè non riconosce i precedenti giurisprudenziali come vincolanti.

Traduco: tutto quello che c’era prima non vale, giusto?

Esattamente. Secondo elemento: l’over-ruling sul diritto costituzionale è ancora più raro. In questo senso è una decisione storica per il metodo e la tecnica scelta. Storica per il merito che va a incidere su un diritto fondamentale, cioè la libertà di scelta delle donne di se e quando abortire.

Tecnicamente la decisione non ha abolito il diritto d’aborto, come leggiamo in queste ore.

No, non ha abolito il diritto, lo ha de-federalizzato. Lo ha messo in mano alla legislazione dei 50 Stati americani e non più sotto la copertura omogenea su tutto il territorio nazionale di una sentenza della Corte, cioè quello che aveva stabilito la Roe-Wade. Tecnicamente il diritto all’aborto c’è, ma gli Stati sono liberi di legiferare in modo più o meno restrittivo.

E a quel punto casca anche il diritto o no?

Il diritto dipende a quel punto dallo Stato dove vivi. E per questo che noi rischiamo domani di avere situazioni giuridiche uguali, ma trattate differentemente da Stato a Stato.

Questa è l’asimmetria relativa al principio di eguaglianza che tanti oggi lamentano.

Sì, è molto probabile, perché il rischio è da un lato di finire in prigione, laddove si pensi di voler abortire. E questo al di là delle situazioni giuridiche specifiche, politicamente determinerà un’ulteriore polarizzazione tra Stati democratici e Stati repubblicani, allargando quella frattura di una potenziale seconda guerra civile americana. È il rischio che vedono in tanti.

Il diritto all’aborto in America dunque dipendeva da una sentenza della Corte Suprema e basta?

Sì, il punto su cui tutto si regge è l’assenza di una legge federale che dal 1973, consolidi un diritto giurisprudenziale.

Quindi è colpa del Congresso?

In un certo senso sì. Non a caso il presidente Biden ha detto: “serve il Congresso, per cui votate votate votate”.

Le critiche sono legittime, ma gli attacchi alla Corte Suprema non rischiano di indebolire il sistema istituzionale americano?

Il rischio è sempre più crescente. Nonostante una vecchia battuta americana dica che “i giudici danno e i giudici tolgono”. Tuttavia, non possiamo non vedere questo ulteriore elemento di radicalizzazione dello scontro.

Non che la Corte è buona quando è democratica e cattiva quando è repubblicana…

La Corte in se e per sé è buona, ma la sua interpretazione in senso originalista rischia di calcare una tendenza a coinvolgere le istituzioni nel conflitto politico.

Quindi, la dottrina di cui il giudice Antonin Scalia era il più importante rappresentante – la Costituzione è quella che intendevano i padri fondatori, rispettando ‘l’original intent’ dei costituenti – è diventata un problema?

Lo è, perché confligge con un lungo e consolidato approccio – la ‘Living Constitution’ – per il quale la Corte accompagna con le sue sentenze l’evolvere della società. Mentre per gli originalisti è il legislatore federale o statale a dover accompagnare l’evolvere della società con le sue leggi, con una Corte neutrale e distante. Per i sostenitori della ‘Living Constitution’, la Corte è dentro la forma di governo e si affianca al legislatore.

Ma non si finisce per cambiare la Costituzione così?

La Costituzione americana è la più antica del mondo, evidentemente sulla sua interpretazione si gioca la sua legittimazione. Questa è la sfida oggi, una sfida che naturalmente, riporta gli americani alle origini del loro stare insieme e al tempo stesso alle prospettive di valore che collettivamente debbono ritrovare per continuare a camminare insieme.

È il modello che segui’ ‘RBA’, la giudice Ruth Bader Ginsburg?

Assolutamente sì, quello di una Corte che via via accompagna, mano nella mano, la crescita del paese. Fin dalla metà degli anni Cinquanta con la presidenza di Earl Warren e l’esplosione, sotto la legislazione Kennedy-Johnson, dei diritti civili.

È quello che il giudice Samuel Alito contesta?

Proprio così, Alito contesta nella sentenza di ieri che sia ancora necessario proteggere quelle sacche di disuguaglianza che dagli anni Cinquanta-Sessanta in poi sono divenute i pilastri della giurisprudenza americana: il diritto di voto per le persone di colore, l’accesso alle università per le minoranze etniche, tutte le libertà legate alle questioni di genere, a partire da quella delle donne, per arrivare alle sentenze sul matrimonio e i diritti sessuali.

Bene, ma alla fine, i movimenti americani più conservatori contestano questo processo, dicono che siamo alla dittatura delle minoranze. E in effetti, le forzature esistono. Le faccio un esempio: uomini che si sentono donne a cui viene permesso di gareggiare con le donne nelle discipline sportive. Ovviamente vincono, ma a perdere in gara è la ragionevolezza. O no?

Qui la risposta migliore l’ha data, proprio nella sentenza di ieri, il presidente della Corte Suprema, John Roberts, di cultura repubblicana, che tuttavia pur sostenendo la decisione della Corte, ha inteso aggiungere una sua opinione concorrente, che dice una cosa importantissima: “Bisogna garantire una ragionevole opportunità di scelta sui diritti, sempre”. Questa è la posizione in realtà della Corte, espressa dal suo presidente, che fatica a diventare mainstream perché vive ancora dentro un tempo fortemente polarizzato. La storia della Corte è costellata da un continuo ‘swinging’ alla ricerca dell’equilibrio. Questa sentenza ci dice che la ricerca dell’equilibrio oggi negli Stati Uniti sarà durissima. Serve un nuovo patto politico-costituzionale.

La mia impressione è che la decisione della Corte finirà per danneggiare i repubblicani sul piano elettorale.

Lo penso anche io, sinceramente. È un boomerang che parte da un elemento corretto (l’assenza di una legge federale dopo 50 anni di giurisprudenza), ma che fa finta di non vedere quanto sia cambiata la società americana e con esso il mondo in questi 50 anni. Pensare di rimettere il dentifricio nel tubetto rischia di essere un’operazione anti-storica e politicamente dannosa, perché nelle prossime elezioni di mid-term di novembre, l’ala moderata dei repubblicani, che è una parte storicamente importante delle vittorie repubblicane, rischia di trovarsi senza riferimenti culturali perché trascinata su posizioni che neanche loro riconoscono più.

È il trumpismo, bellezza.

E questo e’ esattamente il problema dei repubblicani oggi, decidere se accettare la sfida di un ritorno a un passato che non passa, o accettare la sfida del cambiamento senza rinunciare ai propri valori, come non a caso la Corte sottolinea con la ‘concurring opinion’ del presidente Roberts. Il modello democratico, infatti, negli anni si è sentito culturalmente egemone, ma senza continuare a coltivare il dubbio e il dialogo nella società.

E quindi anche dall’altra parte, nei Democratici, c’è qualcosa da rivedere.

Decisamente, non a caso Joe Biden non sta chiamando alla rivolta i democratici, polarizzando nello scontro il paese, ma invita alla calma, sta chiamando gli elettori alla partecipazione, perché in fondo, non va dimenticato, le democrazie sono un oggetto fragile e vivono innanzitutto, sulla base del fatto che i cittadini, votando, continuano a tenerle in piedi.

Impatto sull’Europa?

Duplice: il primo, è un impatto politico, non dimentichiamo che i diritti nascono in Europa, nel Regno Unito, e questo inevitabilmente scatenerà reazioni importanti, ma a differenza degli Stati Uniti, la tradizione costituzionale europea – almeno nei paesi ‘Western legal’ – è molto più solida nella valorizzazione, tutela e garanzia dei diritti fondamentali, non a caso, volenti o nolenti, siamo ancora la patria del welfare state.

Secondo impatto?

L’onda americana prima o poi arriva. La campanella dell’ultimo giro è suonata, sta ai difensori di un modello di dialogo democratico decidere se entrare in campo o far sì che il futuro anche dell’Europa, un domani, sia iper-polarizzato. Sullo sfondo, c’è la dottrina della Chiesa cattolica.

Grande dilemma.

Qui non bisogna mai dimenticare due cose: che qualsiasi Papa è innanzitutto cattolico, ma che la Chiesa per restare centrale nelle società complesse, non può che vivere sempre meglio l’apertura ai laici e alle loro istanze. Dentro questa sfida c’è il catechismo di domani e l’idea di un mondo che nel dialogo tra le Chiese e con i fedeli dovrà trovare elementi nuovi di crescita.

 

*Pubblicato su AGI, sabato 25 giugno 2022

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