LibertàEguale

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di Marco Campione

 

L’incontro di martedì 12 tra PD e +Europa si è concluso come tutti sapevano si sarebbe concluso: fumata nera sull’ipotesi di lista unica. L’unico che sembra sorpreso è Carlo Calenda. Comprendo l’amarezza, ma forse la posta in gioco è troppo importante per buttarla via così.

 

Da dove nasce il fallimento di martedì?

Quando è uscito l’appello di Carlo Calenda per dare vita ad un “fronte repubblicano”, non mi ha convinto perché restava a mio avviso qualcosa di non detto, una ambiguità non risolta. Non ho (ancora?) firmato il suo manifesto “Siamo europei”, perché trovo nelle sue premesse politiche lo stesso difetto. Non mi è chiara la differenza tra l’idea calendiana di “unire i buoni” e quella alla base di “Uniti nell’Ulivo” prima e della nascita del Partito Democratico poi: non era forse quella la “casa comune dei riformisti”? Nessuno mi ha ancora spiegato la differenza tra “Siamo europei” e “Uniti nell’Ulivo”. Non c’è niente di male ad unirsi nell’Ulivo, di nuovo, nel 2019, ma nel 2008 in teoria avevamo deciso di fare un passo in più e dar vita ad un partito unico.

Adesso – e non poteva che essere così – quelle ambiguità, quei sottintesi, quei non detti deflagrano. Sarò all’antica, ma appartengo ad una generazione alla quale hanno fatto in tempo a insegnare che se un progetto politico comincia nascondendosi alcuni evidenti nodi politici, farà fatica ad avere successo; o per lo meno prima o poi quei nodi politici faranno la stessa fine di quelli del proverbio: verranno al pettine.

Ora il problema rischia di diventare quello di stabilire a chi resta in mano il cerino. Già me li vedo che non sanno a chi dare la colpa per il fallimento del “fronte” e ho come la sensazione che la daranno un po’ al carattere di Calenda (ha funzionato con Renzi, funzionerà con quello di Calenda, si devono essere detti ai piani alti del nuovo corso democratico), un po’ alla “legittima volontà di Bonino e Della Vedova di contarsi”. Con tanto di editoriali di Repubblica a supportare le tesi: una nei giorni pari, l’altra in quelli dispari, entrambe la domenica.

 

La sinistra liberale oggi è alla finestra

Il risultato delle Primarie ha se possibile reso questo epilogo ancora più scontato. Ed era ingenuo illudersi che sarebbe bastata la firma di Zingaretti al manifesto di Siamo europei per scongiurarlo. Il 3 marzo più dell’80% degli elettori che si sono recati ai gazebo hanno infatti detto chiaramente che il progetto “casa comune” ha come minimo bisogno di un pit-stop. A me spiace moltissimo, ma in democrazia la maggioranza vince: bisogna prenderne atto. Se oggi il PD appare ancora come la casa comune di tutti i riformisti che vanno a votare è solo perché molti riformisti o non vanno a votare oppure si disperdono in mille rivoli.

Dice bene Dario Parrini quando afferma che non si deve pensare “che la sinistra liberale non abbia errori da riconoscere e revisioni da compiere” e ha ragione da vendere Andrea Romano, quando dice che per sconfiggere la destra sovranista e populista il ruolo della sinistra liberale diventa ancora più centrale. Ma la leadership conta eccome e quella di Zingaretti al momento non sembra avere il profilo giusto per “sfondare” su quel fronte; e lo farà sempre meno se confermerà di voler recuperare qualche seconda fila (le prime sono troppo ingombranti) di quelli che hanno abbandonato il PD per fare una scissione velleitaria (lo hanno dimostrato i risultati elettorali) e priva di progetto (lo dimostra la misera fine di LeU).

Guardiamo gli ultimi sondaggi: i più favorevoli segnalano un recupero del PD, ma a scapito di forze che nessuno si sognerebbe di definire liberali (forze che invece crescono, tutte). Il punto politicamente rilevante di quei sondaggi è che la sinistra riformista variamente intesa e i liberali di ogni collocazione crescono proprio quando si riduce l’astensione. Sembrerebbe quindi che queste forze siano tornate appetibili per chi (anche il 4 marzo 2018) ha fin qui scelto di stare a casa. Da qui alle elezioni è questa la tendenza che non deve essere interrotta e se possibile va rafforzata. 

 

Non si riesce ad unire i riformisti, uniamo almeno i liberal-democratici

Oggi però ci viene offerta un’opportunità: mettiamo per qualche mese da parte i sogni e i rimpianti per una stagione – quella culminata con il Lingotto di Veltroni – che al momento deve fare i conti con le conseguenze di una sconfitta elettorale epocale e ragioniamo pragmaticamente. I movimenti guidati da Calenda (Siamo Europei), Gozi (Cittadini!), Della Vedova (+Europa) e -perché no- anche Pizzarotti (Italia in Comune) possono da qui alle europee rappresentare un punto di riferimento per chi non si fida “ancora” o non si fida “più” del PD a guida Zingaretti; punto di riferimento per chi considera la scorsa legislatura quella delle riforme non sufficienti e non quella delle riforme non necessarie.

Vuol dire rinunciare definitivamente alla casa comune? Non necessariamente. Vuol dire semmai rimandare la discussione a tempi che non siano a ridosso di un appuntamento elettorale, che è fondamentale per capire se questa legislatura si incanala verso un binario morto o un binario “vivo”.

Viceversa si può decidere di insistere con quello che, ridimensionata la portata della scommessa di “Siamo europei”, sarebbe semplicemente una lista “PD più cespugli”. Farlo per giunta senza aver affrontato i punti politici cui accennavo in principio, senza aver lasciato al tempo il tempo di chiarire “se la leadership di Zingaretti sarà più o meno classicamente socialdemocratica”, per citare ancora Andrea Romano. Ma se si procede in questa direzione il rischio che si corre è molto alto. Sarebbe molto utile per chi potrebbe guadagnarsi così un passaggio sul tram per Bruxelles (a scanso di equivoci: non mi riferisco a Calenda, che verrebbe eletto in qualsiasi lista si candidasse), ma in caso di esito deludente potrebbe rappresentare un colpo mortale proprio per quella sinistra liberale, la cui centralità ho richiamato sopra. Il benchmark è ancora lontano e da ieri lo è ancora di più: 7,5 milioni di voti presi dalla coalizione di centrosinistra alle politiche, con altri 1,5 milioni di elettori alla sua sinistra.

La lista liberal-democratica allargherebbe invece l’offerta politica e anche in prospettiva di elezioni nazionali un suo successo sarebbe un primo passo per rafforzare un campo che per governare ha bisogno del 40% dei voti (vuoto per pieno ne mancano almeno 3-4 milioni all’appello). In politica – giova ricordarlo – arrivare secondi (come sta facendo ultimamente il centrosinistra) è forse più gratificante che arrivare terzi, ma comunque vuol dire perdere.

Va da sé che se Calenda sposasse questo progetto, sarebbe tutto molto più semplice. L’ho detto in principio, capisco la sua amarezza per veder svanire il sogno di una lista più ampia. Ma ci sarà tempo, dopo il voto, per ricominciare a tessere quella tela. Oggi una discussione su chi sia il “colpevole” non la reggiamo. Serve da parte di tutti, in primis Calenda stesso, una grande generosità: se non è tempo di unire i riformisti, uniamo almeno i lib-dem.

 

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2 Commenti

  1. Euro mercoledì 13 Marzo 2019

    La discriminante sta nel coraggio di abbandonare definitivamente la subalternità culturale alle idee dirigiste e stataliste, nel coraggio di dire chiaramente quali sono le opportunità e quali i vincoli, dire chiaramente che non c’è compatibilità per stare nello stesso progetto politico… in fondo Renzi ancora oggi è timido su questi argomenti per ragioni proprie….

    Rispondi
    1. Marco Campione mercoledì 13 Marzo 2019

      Concordo, una discriminante è quella di non essere subalterni ad idee della “vecchia” sinistra, oggi declinate con efficacia dalla “nuova” destra. Una prima cartina al tornasole sarà certamente l’approccio tenuto nei confronti dell’autonomia rafforzata.

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