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di Alberto De Bernardi

 

È stato pubblicato da poco il Rapporto  della  The European House – Ambrosetti in collaborazione con Fondazione Fiera Milano, Il futuro dell’industria italiana tra resilienza, rilancio dopo la crisi sanitaria globale e competitività di lungo periodo: traccia un profilo analitico del sistema industriale italiano, colpito dalla pandemia, e individua alcune linee guida per la ripresa produttiva, elaborate attraverso un indagine a tappeto tra gli industriali e gli operatori del settore. 

 

Un messaggio nella bottiglia

Ne emerge un quadro di grandissimo interesse non solo per il merito dell’analisi, ma anche per la cultura d’impresa che si delinea in queste pagine, consapevolmente collocata all’interno di un orizzonte riformista maturo e coerente.

Basta riflettere sui cinque nodi che “zavorrano” il potenziale dell’industria italiana –  rallentamento della produttività, funzionamento poco efficace della Pubblica Amministrazione,  ecosistema dell’innovazione ancora poco dinamico,  diffusione di una cultura antindustriale  e progressivo impoverimento delle relazioni tra l’industria e le parti sociali – , per cogliere a pieno il messaggio  “politico” che esce dal rapporto.

I “padroni” come infelicemente il ministro Provenzano ha chiamato gli imprenditori solo qualche mese fa, hanno cercato in più di una occasione di dire la loro alla politica, in una fase nella quale ci sarebbero finalmente le risorse per mitigare i mali storici del paese cumulati negli ultimi trent’anni e trasformare la pandemia in una straordinaria occasione di rilancio e di crescita. Mai però come in questo “rapporto” l’orizzonte progettuale nel quale collocare le “parole d’ordine” proposte dal mondo dell’impresa – innovazione, digitalizzazione, apertura internazionale, valorizzazione del capitale umano – supera la dimensione tecnica o la mera individuazione del quadro degli “interessi” dell’impresa, per diventare un contributo argomentato e serio a un programma riformista per l’Italia.

Mentre Grillo invoca il reddito universale per sfuggire al “ricatto del lavoro”, il governo balbetta ancora per definire gli indirizzi del Recovery fund, stretto tra spinte assistenzialiste, stataliste e antindustriali e  il Pd non è in grado di fronteggiare le spinte populiste che non hanno nessuna visione del futuro del paese, dal mondo della produzione manifatturiera nella quale l’Italia è una spazio di eccellenza mondiale arriva un messaggio forte di cambiamento.

 

Un nuovo sistema manifatturiero

Questo messaggio deriva dalla presa d’atto che uno dei fattori fondamentali che aveva favorito il decollo industriale nell’Italia del secondo dopoguerra, vale a dire il basso costo del lavoro, è ormai venuto meno e che continuare a inseguirlo anche nei settori produttivi meno esposti alla concorrenza internazionale sia stato e continui ad essere un errore fatale per le imprese. La crisi del primo decennio del XXI secolo ha cambiato profondamente il capitalismo mondiale, accentuando i suoi caratteri molecolari, ha modificato profondamente anche  l’ossatura del sistema produttivo, facendo nascere una nuova Italia industriale che “ basa la propria integrazione nelle catene del valore globali sul presidio di numerose nicchie altamente specializzate, con una forte spinta competitiva verso produzioni tailor-made, design di prodotto ed innovazione tecnologica, che ha visto la competizione di piccole e medie imprese e non la ricerca di economie di scala con grandi dimensioni d’impresa: il nuovo “mantra” del Made in Italy è diventato quindi qualità”. Con questo nuovo profilo manifatturiero oggi siamo nella top-5 mondiale dei Paesi per surplus del settore, con una bilancia commerciale del comparto industriale in attivo di 111 miliardi di dollari, dopo solo Cina (1.091), Germania (393) miliardi Corea del Sud (216) e Giappone (212), e con ben 922 categorie di prodotti italiani (su un totale di 5.206) che rientrano nelle prime 3 posizioni al mondo per capacità di   surplus commerciale.

 

Un progetto riformatore

Ma questo “polpa” produttiva è consapevole che la crescita economica non sia solo innovazione tecnologica, digitalizzazione e investimenti infrastrutturali, ma deve coniugarsi con lo sviluppo delle risorse umane e con la lotta la povertà non solo economica, ma delle opportunità, e che tutto questo presupponga non solo relazioni industriali avanzate e dinamiche, ma soprattutto la presenza massiccia di uno stato “innovatore”; e consapevole soprattutto che questi sforzi vadano coniugati non per massimizzare il profitto d’impresa, quanto piuttosto per ripensare allo sviluppo in chiave di sostenibilità ambientale e di economia circolare.   

Si delinea così uno scenario che non solo cambia i termini del rapporto tra stato e mercato,  che appaiono due istituzioni economiche indispensabili e insolubilmente legate, ma anche modifica anche le relazioni tra capitale e lavoro al di fuori non solo di una logica di antagonismo, ma anche neocorporativa, come quella della concertazione degli anni ’90. In un mercato del lavoro dominato da un lato da imprese altamente tecnologiche che occupano forza lavoro di alta qualità professionale e dall’altro dal self  employment di massa, si impongono non solo modelli di contrattazione lontani da quelli del XX secolo, ma anche processi di ridefinizione del welfare e della rete dei diritti sociali, che sta alla politica ridefinire ma che richiedono un nuovo protagonismo delle parti sociali. 

 

Un gap di energia

C’è bisogno dunque di più stato, più mercato, più sindacato,  per fare superare all’Italia i suoi gap più gravi. Innanzitutto  un ritardo nell’innovazione tecnologica e un ancora più evidente arretratezza nella digitalizzazione delle attività e dei processi, che chiama in causa problemi di infrastrutturazione delle reti, macchine “intelligenti, big data, intelligenza artificiale,  ma soprattutto un sottodimensionamento della formazione e della ricerca pubblica e privata capace di garantire forza lavoro adeguata alla sfida del cambiamento continuo come cifra del modo di funzionamento delle attività produttive e dell’impresa moderna.

Inoltre una frattura crescente tra le esigenze e le aspettative di una società avanzata in cammino nel mondo globale e la pubblica amministrazione,  sovraccaricata di leggi inutili,  di inefficienze corporative, di bassa qualità del personale, di centralismi paralizzanti, che ne fanno il principale freno affinché il paese nel suo complesso sprigioni  quelle “energie di sistema” indispensabili per poter reggere nella competizione internazionale: secondo i calcoli del Rapporto questa “energia” che in Italia e pari quasi a zero contribuisce per  il 59% alla crescita tedesca, per il 36% a quella francese, per il 38% a quella  inglese e  per il 39% a quella statunitense.

Si tratta di uno scarto enorme che sintetizza però il perimetro sul quale devono essere orientati gli sforzi del decisore politico. Se lavoro e capitale sono allineati agli altri paesi avanzati come efficacia e capacità competitive, è tutto il resto che sta loro intorno che invece arranca e non è competitivo: ma questo “resto” è in gran parte stato,  con la sua pubblica amministrazione, la sua scuola, la sua giustizia, le sue infrastrutture, la sua sanità, i suoi trasporti,  che contribuisce a formare un sistema-paese inadeguato alla domanda di cambiamento e di efficienza che proviene dalle forze produttive.

E’ in questo scarto tra “polpa e osso” che si annidano le nuove povertà e le nuove diseguaglianze alimentate da un mercato del lavoro dove domanda di elevate abilità che proviene dalle imprese avanzate non si incontra con una offerta dove prevalgono modeste abilità, per lo scarso rapporto tra formazione e mondo produttivo, ma anche da disparità territoriali incancrenite, e da una mentalità collettiva sfiduciata che persegue il mito del sussidio, piuttosto che lo stimolo all’iniziativa personale.   

Ma in questo scarto si colloca anche una connotazione familista del capitalismo italiano nel quale primeggia a livello mondiale il peso della famiglia imprenditoriale nella definizione dell’intero management, nei confronti del quale è mancata la capacità d’intervento della “mano visibile” statale, che ha sempre preferito controllare che regolare, statalizzare piuttosto che liberalizzare,  senza favorire, se non imporre,  l’innovazione nel sistema di gestione delle imprese: siamo ancora molto vicini a quando Enrico Cuccia, dominus del capitalismo italiano attraverso Mediobanca,  sosteneva che le azioni  non si contavano, ma si “pesavano”.

 

Che fare?

Per stare nella “factory Europa”, cioè nel sistema economico più integrato del mondo con una livello di relazioni “regionali” unico nel suo genere,  l’Italia deve fare dunque uno sforzo significativo e  ma irrinunciabile, lungo una direttrice chiara nei suoi termini essenziali: “rimpolpare l’osso” facendo soprattutto dello stato non una zavorra, ma un promotore di innovazione, stando non indietro al sistema produttivo, ma a fianco, quando non davanti. E’ finita l’era nella quale lo stato era “il problema” come amava di Reagan; ma per entrare in una altra nella quale esso sia come era accaduto nei Trenta gloriosi promotore di  “soluzioni”, si impone un salto di qualità, che la faccia uscire dal circuito vizioso di una sistema produttivo che compete con le mani legate da un sistema paese nel  bassa produttività del pubblico, scarsa mobilità sociale, incapacità non solo di valorizzare il capitale umano che esce dalle nostre scuole e dalle nostre università, ma anche di moltiplicarlo, costituiscono un intreccio perverso.

A questo proposito il Rapporto  suggerisce numerosi stimoli che dalla politica industriale e da quella economica giungono alle politiche sociali mettendo in luce un idea di paese che in gran parte coincide con quello che le forze liberaldemocratiche e liberalsocialiste hanno da tempo delineato. Oggi la faglia che divide le forze politiche e rende ancora dotata di qualche senso la contrapposizione tra destra e sinistra passa necessariamente da come si affronta un’epoca storica caratterizzata da una velocità dei processi di cambiamento sconosciuta nel passato. Le due crisi della finanza e dei debiti sovrani prima e ora la pandemia hanno accelerato la consapevolezza che il mondo è entrato in un’era nuova che ha ben poco a che fare con il passato, che si può affrontare con il neoluddismo della “decrescita infelice” e/o con lo sforzo  di dilatare il welfare novecentesco attraverso una operazione di “destoricizzazione” (ciò che era stato pensato nell’epoca del fordismo e del capitalismo statalmente regolato va bene sempre), destinata al fallimento,  oppure farsi carico di governare il cambiamento ripensando l’eguaglianza e l’emancipazione del lavoro all’interno di un mondo nuovo per sistema produttivo e organizzazione sociale, come fecero i riformatori sociali agli inizi del XIX di fronte all’industrialismo: il Rapporto invita a sceglie questa “via”.

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