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Healthy New Deal e governance globale per fronteggiare i virus

Umberto Minopoli giovedì 26 Marzo 2020
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di Umberto Minopoli

 

Perché abbiamo più morti? Chi sa rispondere? I giornali elencano varie ipotesi: i sistemi di calcolo; il numero di tamponi eseguiti; il fatto che il focolaio (al Nord) sia stato l’ospedale; l’età alta della media anagrafica in Italia; il polmone dei fumatori; l’interazione tra generazioni (in Italia c’è più convivenza tra vecchi e giovani).

Ovviamente c’è chi si spinge a chiamare in causa le polveri sottili in Pianura Padana. I medici e i virologi fanno meno sociologia. E sono più attenti all’epidemiologia. Essi sembrano propendere, nello spiegare le differenze nei numeri della letalità in Italia, non per cause strutturali, ambientali o di stili di vita “italiani”.

Non è che ci sia un virus “italiano” o una particolarità italiana né ambientale né di misure prese. Anzi. E allora, i tecnici alludono a fattori casuali o tecnici – sistemi di calcolo, specificità anagrafiche e interazioni tra le popolazioni colpite – che spiegano i numeri diversi dell’Italia.

Dobbiamo liberarci dell’assillo (ormai un refrain) di trovare cause “ecologiche” per ogni evento naturale, una causa antropica per ogni disastro o evento catastrofico. Non esiste, per le infezioni virali (specie di quelle tipo Sars, tra cui il Covid), una possibile tassonomia – sociale, ambientale, anagrafica, ecologica o di stili di vita – che spieghi la diffusione del contagio: tutti, letteralmente, e in ogni realtà geografica o ambientale, quando il microbo è attivo e in circolazione, possono ammalarsi di un virus Sars. Per una sola ragione: la facilità di trasmissione. Lo scambio di particelle liquide infinitesimali attraverso il contatto diretto e ravvicinato tra persone è, purtroppo, dopo quella di un patogeno, eventualmente, diffuso in aria (per fortuna, non verificato, finora, per i microrganismi) è la modalità di contatto col virus più banale. Per altri virus patogeni (es. Ebola o Hiv) non è così: le vie di trasmissione sono più difficili. E le epidemie, per questo, sono più contenute.

Purtroppo c’è una sola evidenza “ecologica” nei virus Sars (oltre quella, non banale, che la “calda” Africa sembra indenne dal virus): originano tutti da “spillover” (passaggio da animali ad uomo). Il “reservior”, il portatore originario del virus (poi diventato umano), è, quasi sempre, un animale selvatico che lo trasferisce ad animali domesticati o all’uomo. Tutte le Sars degli ultimi 20 anni (tra cui il coronavirus) sembrano essere nati da luoghi in cui lo spillover è facilitato dalla promiscuità tra animali selvatici di numerose specie, animali domestici ed uomo. I “wet market”, vendita di animali vivi selvatici per scopi alimentari, del Sud della Cina. La Cina li sta chiudendo. Forse con ritardo.

Ma non illudiamoci: un virus influenzale tipo Sars, può saltare o essere “saltato” dall’animale selvatico in altri organismi viventi, in tempi e luoghi diversi, stare silente per tempi indecifrabili e poi, all’improvviso, attivarsi. La sola vera difesa verso l’infezione, non illudiamoci, resterà quella della più rapida possibile “scoperta” del portatore e del suo immediato isolamento.

Il dopo virus implicherà cambiamenti di “agenda” politica: in primis, un healthy new deal. L’economia, altro che green, dovrà reinvestire, subito, in sistemi sanitari, strumenti e presidi per la salute, standards di trattamento e preparazione alle epidemie, norme igieniche internazionali, sistemi di detectazione dei rischi epidemici.

La scienza dovrà fare altrettanto. Le tecnologie innovative, insieme ai farmaci e ai vaccini, saranno la frontiera della mitigazione della minaccia. La medicina e la ricerca biomolecolare dovranno avere priorità assoluta e risorse dai governi.

E, soprattutto, ai virus globalizzati va risposto con la globalizzazione della sfida. Occorrerà una nuova governance globale della lotta alle infezioni virali e ai patogeni. L’Onu dovrà dare all’Oms (l’agenzia per la salute) lo stesso rilievo che dà all’Ipcc (l’agenzia per il clima); dare alle patologie pandemiche la stessa attenzione che dà, oggi, alla temperatura della Terra: una pandemia oggi crea non meno danni dei temuti cambi climatici domani.

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